All'origine della parola serial killer. È li che porta la nuova fiction di Netflix Mindhunter creata da David Fincher (il regista di Fight Club e Il curioso caso di Benjamin Button). Partiamo dalla trama. Siamo nel 1977. Al centro della narrazione c'è un agente dell'Fbi Holden Ford. Ford è un perfettino e si occupa di negoziazioni. Dovrebbe affrontare i criminali e convincerli a mollare le armi. Questo in teoria. Nella pratica si trova ad affrontare un folle che si crede invisibile e che, dopo di aver finito di minacciare gli ostaggi, si fa saltare la testa. Per Ford è un trauma. Quando, per allontanarlo dalla prima linea, gli chiedono di addestrare altri agenti nelle negoziazioni si sente totalmente inadeguato. Come si può trattare con qualcuno di cui non si capisce il movente?
Inizia così un nuovo percorso, torna a studiare in università, si fa aiutare dalla nuova fidanzata (molto hippie ma con un dottorato in sociologia) e inizia ad andare presso le sedi della polizia locale, assieme a un altro agente, Bill Tench, per capire come saldare la teoria criminologica con i fatti. È da lì che nasce una unità speciale che pone le basi del profiling, ovvero la scienza che consente di ricostruire i moventi e il modus operandi dei serial killer.
Detto così potrebbe semplicemente trattarsi di una bella fiction che porta lo spettatore alle origini di Criminal minds e de Il silenzio degli innocenti. In realtà David Fincher assieme a Joe Penhall (sceneggiatore anche di The Road)regala al pubblico qualcosa di più. Intanto la narrazione, pur ampiamente di fantasia, è sapientemente appoggiata alla realtà dell'epoca e al saggio più preciso mai pubblicato sulla storia del profiling: Fbi's Elite Serial Crime Unit scritto da John E. Douglas (ex agente dell'Fbi) e Mark Olshaker. Dietro ai due agenti di finzione Ford e Tench si scorge il profilo dei due veri pionieri del profiling ovvero il Douglas autore del libro (Ford) e quello che all'epoca fu il suo principale collega Robert Ressler (l'inventore dell'espressione serial killer). Poi la serie è basata su una narrazione minimalista e per niente votata allo spettacolare. Quasi fosse una docufiction (del resto i serial killer di cui si parla sono veri come Ed Kemper, «il killer delle studentesse»). Tutto si gioca sui dialoghi che tengono insieme le teorie di Émile Durkheim sul crimine e il turpiloquio dell'agente abituato a battere le strade dei bassifondi o il delirio sessuale di un maniaco. La tensione è tutta nelle parole, accompagnate da una ambientazione vintage perfetta, mai nelle azioni. Qualcuno ha scritto che le realizzazioni di Fincher per Netflix sono «contenuti narrativi cronologici in streaming». Più semplicemente Fincher se ne frega del ritmo e, invece di fornirvi il solito videoclippone in salsa crime, vi regala una riflessione sul male. E non solo il male che sta nei serial killer. Nel magistrale interrogatorio in carcere di Kemper, a esempio, l'agente e il detenuto psicopatico si specchiano a vicenda l'uno nell'altro. Il loro dialogo ruota attorno alla domanda fondamentale senza risposta: sei così per colpa della società o ci sei nato? E poi ancora, è possibile fare qualcosa per curare chi è così o addirittura predire il suo comportamento criminale (tra le citazioni della serie passano anche Freud e Lombroso)? E qual è la distanza che separa il sano dal malato?
In questo gioco di specchi poi si infilano ovviamente anche gli effetti distorsivi voluti e non. Quando è il profiler che legge nella mente del killer e quando il contrario? Alla fine il grande dilemma di Kemper, e di quelli come lui porta agli estremi la dualità dell'animo umano senza sconti: «Noi che diamo la caccia al prossimo per vocazione vogliamo solo parlare di com'è. Non è facile massacrare la gente, è un lavoro duro fisicamente e mentalmente. Cosa bisognerebbe fare a quelli come me? Una lobotomia non sarebbe da escludere. E se non funziona? Morte per tortura». Ed è questa dualità che la serie racconta, anche con una spruzzatina di citazionismo davvero ben riuscita.
Gli agenti dell'Fbi studiano, per capire come negoziare, Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975) di Sidney Lumet e i serial killer confessano di aver studiato la mentalità della polizia guardando Sulle strade della california (serie del 1973).
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