La vita è una commedia girata dal sadico Allen

Il sogno di Hollywood tra gangster, inganni e amori. Resteranno solo rimpianti e nostalgia. Il regista: "Ridere di noi ci trattiene dal suicidio"

Woody Allen con Blake Lively e Kristen Stewart
Woody Allen con Blake Lively e Kristen Stewart

da Cannes

La vita è una commedia scritta da un autore sadico. Se la guardiamo dall'esterno, è perfetta. Amori, inganni, equivoci Ma basta provarli sulla propria pelle perché tutto cambi, assaliti dall'angoscia e dal fallimento. Che fare? Ridere di noi ci trattiene dal suicidio, cogliere il lato divertente ci permette di sopravvivere lì dove la crudeltà è in agguato».

A ottant'anni, Woody Allen inaugura per la terza volta Cannes con una pellicola fuori concorso, Café Society. «La competizione mi interessa solo nello sport, in campo artistico poi mi sembra qualcosa di assurdo. È meglio Rembrandt o El Greco, Cézanne o Picasso? Sono domande senza senso, basta rifletterci sopra un attimo. Detto questo, venire al Festival mi piace, si vedono film, si parla di cinema, si è ben trattati, è come una vacanza e la notorietà la rende ancora più piacevole. Diffidate di chi vi dice che la fama fa male, è un bugiardo».

Café Society è un film romantico, una storia d'amore senza il lieto fine. «Ma io sono un romantico, chiedetelo alle mie compagne, ve lo confermeranno Certo, non un romantico alla Clark Gable, mi manca il fisico, però vengo da quel mondo lì, con i suoi eroi cinematografici visti da ragazzo e mai dimenticati. È anche per questo che ritorno spesso a quegli anni, gli studios, il glamour di Hollywood, la New York del crimine e dei cocktails. È un mondo che non esiste più, se non nella nostalgia».

L'età non sembra pesargli: «Che volete che vi dica Quando qualcuno sottolinea la mia vecchiaia, il primo a stupirsi sono io. Continuo a fare quello che ho sempre fatto, non mi costa nessuna fatica in più. Sarà perché ho estratto il biglietto vincente alla lotteria della longevità: i miei genitori sono morti centenari Certo, può accadere che domani mi venga un coccolone e finisca incosciente su una carrozzella. Da lontano, qualcuno mi indicherà e dirà al suo vicino: Vedi, quello era Woody Allen, poveretto, guarda come si è ridotto».

Ogni anno, il regista di Manhattan gira un film e bisognerà ormai ammettere che esiste un «effetto Allen» così come c'era un «effetto Lubitsch», quell'insieme indefinibile che si riconosce al primo istante, fatto di piccole cose che lo contraddistinguono, una musica, un'inquadratura, un ritmo nei dialoghi. Café Society ne è la più classica delle dimostrazioni: tutto gira alla perfezione nell'ora e mezzo canonica con cui i suoi film sono costruiti, sapiente montaggio di storie che si intrecciano. Qui c'è la famiglia ebrea di piccoli commercianti da cui il giovane protagonista, Bobby (Jesse Eisenberg), fugge; il miraggio di Hollywood che lo attrae come una calamita e dove un fratello della madre, agente di attori di successo, vive (Steve Carell); l'illusione di un amore per una giovane segretaria (Kristen Stewart); la delusione che prelude a una rinascita, professionale e sentimentale, che però non è sufficiente a tenere lontano il rimpianto, la consapevolezza di aver mancato ciò che nella vita gli avrebbe dato la felicità.

Kristen Stewart è deliziosa nei suoi rossori e nelle sue gonnelline, Jesse Eisenberg incarna al meglio quel miscuglio di inadeguatezza mista a un'alta considerazione di se stesso che è tipica degli «eroi» di Allen, così come di Allen stesso, la luce della fotografia di Vittorio Storaro illumina dolcemente volti e luoghi e accompagna il dipanarsi della storia. Ci sono i ricchi, ci sono i gangster, ci sono i night, gli smoking, le piscine e i cadaveri sepolti nel bitume, ma su tutto c'è un occhio affettuoso e malinconico, la leggerezza di chi cerca sempre e comunque di alleviare il peso di quella morte a credito che è la vita.

Storia di una famiglia e di un amore, Café Society racconta anche l'inarrestabile scorrere del tempo e il vederselo sfuggire dalle dita.

Ci si ritrova cambiati, ci si accorge di essere in realtà sempre gli stessi, si vuole credere che al fondo non è mutato nulla, anche se niente potrà più essere come prima. È un pensiero che aiuta a vivere, lasciandoci tristemente felici e/o felicemente tristi. Di più, dalla vita non si può avere.

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