Vita, morte e destino di Marina Cvetaeva, la poetessa che fu schiacciata da Stalin

Due libri raccontano la disperata esperienza della scrittrice e di suo figlio nell'inferno dell'Urss dove la letteratura divenne un crimine irredimibile

Vita, morte e destino di Marina Cvetaeva, la poetessa che fu schiacciata da Stalin

«Perdonami, ma andare avanti sarebbe stato peggio. Sono molto malata, non sono più io. Ti voglio un bene infinito. Capiscimi: non potevo più vivere. Dì a papà e ad Alja se li vedrai che li ho amati fino all'ultimo momento, e spiega loro che ero finita in un vicolo cieco». Scriveva così, il 31 agosto 1941, Marina Cvetaeva, nel suo biglietto di addio al figlio minore, Mur. Nel biglietto successivo, rivolto agli amici, la preghiera di prendersi cura di lui («I piroscafi sono terribili, vi prego di non farlo partire da solo Per lui non posso fare più nulla. Solo portarlo alla rovina»), ma anche una disperata, lugubre richiesta: «Non seppellitemi viva, controllate bene». C'era voluto molto per piegare la donna «della smisuratezza»: la guerra civile che l'aveva separata dal marito, Sergej Efron, ufficiale dell'esercito «bianco», la carestia, la morte per denutrizione della figlia Irina, la misera emigrazione a Praga e a Parigi, il ritorno in Russia, dopo 17 anni, l'arresto dell'altra figlia, Arianna, e dello stesso Efron. Nel 1939, due anni prima di suicidarsi, però, la donna che non poteva «firmare indirizzi di saluto al grande Stalin, giacché non sono stata io a chiamarlo grande», oppressa dalla miseria, si costrinse a scrivere una lettera, o forse una fiera supplica nella migliore tradizione russa, come ricorda Ezio Mauro nella sua interessante introduzione a Berija, principale collaboratore di Stalin nelle purghe di regime e potentissimo capo del famigerato NKVD.

Nella lettera (Nemico pubblico, De Piante, pagg. 52, euro 20; traduzione di Claudia Sugliano), la Cvetaeva, sempre incapace di scendere a compromessi, parla del marito come di un «uomo di grande purezza», proprio come ne aveva scritto a Stalin, dando la sua inutile «parola di poeta» che Efron che dal 1934 era agente dell'NKVD e aveva avuto un ruolo di primo piano nell'omicidio del disertore dei servizi segreti sovietici Ignatij Rejss fosse «pronto a morire per l'idea di comunismo».

La lettera non ebbe, naturalmente, risposta, e la Cvetaeva, dopo l'inizio dei bombardamenti su Mosca, si rifugiò con Mur a Elabuga. Mur, soprannome in memoria de Il gatto Murr di Hoffmann di Georgij, che, però, era stato «Boris per nove mesi nel mio grembo», come scrisse la Cvetaeva al suo amor de lonh Pasternak, era nato nel 1925, ed è giovanissimo quando scrive i diari che Magog propone, meritoriamente, per la prima volta in Italia (Grida dai tetti il suo amore per me, nella bella cura di Fabrizia Sabbatini e Davide Brullo), agghiacciante testimonianza delle condizioni di vita nell'Unione Sovietica, in cui la più straordinaria poetessa del secolo scorso doveva mendicare un posto di lavapiatti. Mur ha fame, legge Giraudoux, Montherland, Faulkner e Baudelaire, scambia il Decameron con due paia di calzini di lana, vuole andare a scuola, parla, con inesorabile lucidità, del «decadimento, degrado, orrore, miseria» che li circonda, ha bisogno di illudersi che un telegramma della madre a Stalin possa cambiare il loro destino, dice che «vivere così è morire», sopporta a stento la Cvetaeva («Ha perso la testa. Non ne posso più») ed è avvolto da una sorta di disperazione sessuale («Vorrei sapere quando smetterò di essere vergine»). Il figlio accusa la madre di «residuo di ipocrisia borghese» e vorrebbe da lei una «guida», dei «consigli»: un desiderio legittimo, che, però, non poteva essere esaudito dalla donna secondo cui «il sesso è ciò che deve esser sconfitto, la carne è ciò che scuoto da me come polvere», che descriveva l'amore umano «gioco di muscoli, e nient'altro», che si definiva «predatrice di anime» e che visse i suoi più celebri amori quelli con Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke da lontano, rifiutando ostinatamente l'incontro e la realtà, perché «si può amare soltanto chi non si è visto mai».

Nonostante il suicidio, Mur, che verrà ucciso tre anni più tardi sul fronte bielorusso, non condanna la Cvetaeva, ma scrive di «capire e approvare completamente la sua

decisione». In fin dei conti, nel suo cuore doveva sapere che la donna «per cui la vita quotidiana era tradimento» aveva prolungato fin troppo la sua agonia: «Da un anno misuro la morte. Non voglio morire, voglio non essere».

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