Wenders e l'arte di vedere soltanto le vite degli altri

Scrittori, musicisti, ballerine, fotografi, Papa Francesco. Il regista tedesco dà il meglio di sé come documentarista

Wenders e l'arte di vedere soltanto le vite degli altri

Al regista e produttore tedesco Wim Wenders non sono mai mancate le parole per dare forma alle sue riflessioni sul fare cinema, sulla fotografia, sull'atto di vedere. Ed è proprio L'atto di vedere il titolo di una delle raccolte di suoi testi e interviste più interessanti. Pubblicato una prima volta nel 1992 (con riedizione nel 2002) da Ubulibri, ora torna in libreria grazie a Meltemi con la stessa traduzione, rivista, di Roberto Menin (pagg. 272, euro 20).

Nulla di sostanzialmente nuovo, verrebbe da dire. Vero. Tuttavia, leggendo o rileggendo il Wenders riflessivo (fenomenologo, filosofo, psicologo, sociologo, politico ecc.) di queste pagine risalenti agli anni 1982-1992, si ha anzitutto l'opportunità di compiere un salto in quel tempo, «un decennio cruciale», come scrive Chiara Simonigh nella prefazione a quest'edizione, «per la visione nel mondo e del mondo, e per la comparsa e la diffusione di immagini nuove»: come quelle trasmesse dalle videocamere installate sui missili durante la guerra in Kuwait, quelle registrate dalle videocamere di sorveglianza, sempre più diffuse ovunque, quelle legate alle nanotecnologie, o quelle delle prime fotocamere e videocamere digitali. Wenders non poteva avere allora cognizione di cosa sarebbe accaduto con internet (il World Wide Web nasce formalmente nel 1991), ma non gli mancava la facoltà immaginativa per pre-vedere e pre-sentire trasformazioni che di lì a breve sarebbero state decisive per la stessa percezione del reale. Durante un incontro pubblico a Tokyo nel 1990 sul tema della tv ad alta definizione, il tedesco confessava così il proprio auspicio e la propria preoccupazione: «Il mio sogno è un'alta definizione che ci aiuti a migliorare la nostra sensibilità per il reale; l'incubo invece è che cancelli ogni fiducia in immagini capaci di farsi portatrici di verità».

Certamente utile per comprendere il percorso biografico, artistico e riflessivo compiuto da Wenders fino al 1992, tuttavia, scritto ora il testo della Simonigh avrebbe potuto aiutare il lettore, almeno per cenni o suggestioni, a capire che cosa sia successo al tedesco e alla sua attività principale, quella del regista, nei trent'anni successivi. Anche perché proprio in alcuni degli scritti qui raccolti emerge in forma più o meno esplicita quella sovrabbondanza di riflessioni che negli anni successivi avrebbero ridotto, fin quasi al prosciugamento, la vena creativa wendersiana.

Mai particolarmente felice nella produzione di film di narrazione, l'autore ha trovato di fatto la propria piena maturità artistica nella realizzazione di documentari dedicati a protagonisti delle arti più varie: scrittori come Peter Handke, musicisti come Compay Segundo e gli altri cubani, ma anche i tedeschi della band BAP, danzatrici come Pina Bausch, fotografi come Sebastião Salgado. In attesa di vedere il suo prossimo film (dedicato ai bagni pubblici di Tokyo...), la sua vena documentarista è stata confermata anche con l'accettazione del lavoro su commissione del Vaticano dedicato a José Bergoglio, Papa Francesco - Un uomo di parola (2018).

La sempre più evidente incapacità/impossibilità di raccontare attraverso il cinema storie che non siano quelle di altri è contenuta in particolare in alcune risposte concesse da Wenders in un'intervista al canale tv 1-Plus in due parti, nel 1989 e nel 1991. Il tema era la verità delle immagini e il regista, interrogato su sguardo e percezione visiva finisce col denunciare una dicotomia, quella tra immagine e pensiero: «Trovo straordinario - sosteneva allora - che l'immagine, diversamente dal pensiero, non imponga alcuna opinione sulle cose. In ogni operazione del pensiero è sempre implicito anche un giudizio sugli oggetti, sugli uomini, su una città o su un paesaggio». «Per me - aggiungeva - vedere significa sempre immergersi nel mondo, pensare, invece, prenderne le distanze».

Da allora Wenders è certamente rimasto fedele al suo «atto di vedere» e a quella drammatica dicotomia tra immagine e pensiero.

Ecco perché, azzardo, non è più riuscito a raccontare con il cinema storie proprie. Temendo di soccombere, ha preferito eludere il pensiero, ne ha preso le distanze. Così facendo ha ridotto la sua arte a quella di un buon documentarista, quale è tuttora.

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