«Il razzismo è come la malaria». Più che un calcio, Boateng rifila una bordata all'ignoranza. Forte e tesa come quelle con cui delizia il pubblico di San Siro alla domenica. Ieri a Ginevra lo attendeva «una delle partite più importanti della mia vita», come l'aveva definita lui stesso. Nessun avversario pronto ad azzannargli le caviglie o portiere in uscita da scavalcare. C'era di più, molto di più in ballo.
Non capita tutti i giorni di dover parlare al palazzo delle Nazioni Unite. Così come alla Fifa a Zurigo, dove oggi concederà il bis. Ma ciò che è successo quel pomeriggio del 3 gennaio scorso a Busto Arsizio non poteva finire nel dimenticatoio. È il brutto che ritorna e non passa mai di moda. Ce li ricordiamo tutti quei beceri ululati, cui il campione di colore ha reagito con una pallonata, prima di imbeccare la via degli spogliatoi. Ci ricordiamo tutti la decisione del Milan, pronto ad abbandonare il campo in segno di solidarietà al suo giocatore. Non era mai successo prima e poco importa fosse un'amichevole. L'immagine fece il giro del mondo e l'Onu colse la palla al balzo, invitando Boateng proprio in concomitanza con la giornata internazionale per l'eliminazione delle discriminazioni razziali.
E il Boa non si è tirato indietro. Via le felpe da bullo, i calzoni larghi e le catene da tamarro. Il Boateng istituzionale veste gessato, camicia bianca e cravattino scuro. Un'eleganza da Prince, tanto che persino i capelli alla mohicana abbassano la cresta. Prima del discorso all'Alto commissario per i diritti umani, una capatina all'ambasciata ghanese. Perché anche se sei nato a Berlino, l'Africa ti rimane dentro. Poi finalmente inizia la partita. Il Boa è affiancato da Vieira, tipo tosto dentro e fuori dal campo. Le parole scorrono veloci, rotte solo da qualche inceppatura. Sgambetti della lingua inglese o, più probabilmente, dell'emozione.
«Il razzismo non è solo un argomento da History Channel, esiste qui e ora. Si trova nelle strade, sul posto di lavoro e anche negli stadi di calcio. È come un virus altamente pericoloso e infettivo, che viene rafforzato dalla nostra indifferenza. Quando ho giocato con la nazionale ghanese, ho imparato a combattere la malaria. Vaccinare le persone non è sufficiente. Bisogna anche prosciugare gli stagni dove le zanzare portatrici della malattia proliferano».
Per Boateng gli stadi sono come quegli stagni. Vanno bonificati per far sì che i giovani non s'infettino. E il compito di agire non spetta solo alla politica. «Gli atleti, gli artisti dello spettacolo e del mondo della musica e dell'informazione possono raggiungere il cuore di una parte della popolazione a cui le discussioni a livello politico non potranno mai arrivare».
Il Boa cita Obama, Martin Luther King, ma pure Muhammad Alì. E poi Nelson Mandela, conosciuto in occasione del Mondiale in Sudafrica nel 2010. Un uomo che ha fatto della lotta al razzismo la propria ragione di vita. Perché ignorare il problema è forse la scelta più facile, non la migliore. «Il razzismo non va via da solo come il mal di testa.
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