Non lo sa. L'atletica mondiale che domani sera si prepara a salutare il più grande velocista di tutti i tempi non lo sa, ma sta celebrando altro. O forse lo sa e come si conviene in questi casi fa finta di nulla, girando la testa altrove, dicendo cose varie sul mondiale al via oggi e snocciolando per domani nomi di possibili sfidanti di Usain Bolt. Prova a pensare ad altro, l'atletica. Per esempio al forfait, proprio ieri, a sorpresa e causa infortunio alla coscia destra, di un possibile pretendente al trono di Usain: André De Grasse, il canadese 22enne argento nei 200 e bronzo nei 100 e nella 4x100 a Rio, 9''91 il personale.
Non lo sa, l'atletica mondiale, o forse lo sa che celebrando l'addio del lampo giamaicano sta apparecchiando il funerale di se stessa. Perché fino ad oggi e da dieci anni si era sempre sostenuta, nonostante tempeste e problemi, sulle imprese del ragazzone di Sherwood Content e sulla sua, fino a prova contraria, purezza. E nel mesto e però doveroso inciso fino a prova contraria sta l'essenza dei mali di questo sport. Perché neppure per Bolt, oggi, ora, adesso, nessuno metterebbe la mano sul fuoco.
Non si può. Non si deve. Troppe le scottature, troppe le ferite ancora aperte sul corpo dell'atletica. Basti pensare a un'interessante statistica uscita nei giorni scorsi sulla Gazzetta dello Sport, in cui si metteva in risalto come, fra le trenta prestazioni all time nei 100 metri, solo nove non appartenessero ad atleti che avevano avuto problemi con il doping. E queste nove erano tutte di un atleta solo: Usain. Per cui sì, forse, per lui e solo lui, si potrebbe anche mettere una mano sul fuoco. Ma perché rischiare?
È un malato grave l'atletica e non potrebbe essere altrimenti se un'intera nazione come la Russia si è sputtanata un anno e mezzo fa, finendo bandita per doping e trucchi chimici prima dai Giochi di Rio e poi dai mondiali. È un malato grave l'atletica se oggi si ritrova, tristezze e dintorni, ad ammettere ai Mondiali diciannove atleti di quella federazione disonesta che hanno però dato prova di essere puliti, costringendoli a gareggiare come neutrali senza bandiera e inno da suonare, neppure come suoneria dei loro smartphone. È un malato grave l'atletica se un mito inglese come Mo Farah, campione olimpico dei 10 e 5mila proprio in questo stadio e a Rio, che stasera proverà a issarsi sul trono dei 10mila per il terzo mondiale di fila, si ritrova a litigare coi media locali un giorno sì e l'altro pure per le ombre di doping che sono piovute addosso anche a lui.
Per tutto questo, sì, domani alle 22,45 ora italiana, quando il mondo che per dieci anni ha amato Usain Bolt si unirà allo splendido pubblico inglese per assistere a quei nove secondi e rotti del suo saluto, verrà data a tutti la libertà di scegliere se si sta per assistere a un re che lascia o a un funerale. A impegnare un Bolt non in formissima (9''95 faticosi a Monte Carlo) che ha rinunciato ai 200 e però perso per strada il più pericoloso, De Grasse, saranno il vecchio e discusso (ovviamente per cose di doping) Justin Gatlin, 9''74 di personale, o l'altro giamaicano, Yohan Blake (9''69) o l'emergente americano Christian Coleman, 9''82 quest'anno. Nomi grigi rispetto ai mille colori del Lampo giamaicano. La verità è che prima o poi arriverà anche l'erede, è nelle cose dello sport e dei record, «anche se spero che i miei figli abbiano 20 anni il giorno in cui batteranno i miei primati», ha detto Usain. È l'altro tipo di erede che sarà difficile trovare, quello capace di andare oltre le corsie della pista. Perché Bolt è stato il Valentino Rossi dell'atletica. Lo sportivo capace di farla uscire dal recinto, ampio, ci mancherebbe, degli appassionati, spingendola nelle case di tutti. Il lampo, il gesto della freccia, le sue falcate, le sue cazzate, i suoi sorrisi, i suoi errori. Prima di lui c'era stato un figlio del vento antipatico e scostante. Dopo di lui uno sport sbandato che adesso prova a far quadrato convergendo sul primatista mondiale e oro olimpico dei 400: il sudafricano Wayde Van Niekerk. S'allena per mesi in Italia, raccontano. Lo segue una nonna coach.
A Londra attaccherà la doppietta iridata 200-400 che fu solo di Michael Johnson, Goteborg '95. Bello. Importante. Forse anche rincuorante. Ma nel giorno di un funerale anche tutto questo sembra luccicare di meno.
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