Prendiamo alla lettera la comunicazione di Elliott e del suo ad Gazidis ripetuta come un mantra nelle passate settimane. «Decideremo a fine campionato» hanno continuato a ripetere anche nei giorni durante i quali le interviste, firmate da Rangnick sul suo futuro trasferimento a Milanello, hanno scompaginato ogni piano e spinto Boban a sbattere la porta e Maldini a firmare giudizi appuntiti. Filtriamo poi la frase civetta con le confessioni in privato arrivate dalle stesse fonti («metti che Pioli ci porta in Champions») e si ritorna al punto di partenza in una sorta di gioco dell'oca applicato al mercato rossonero. Già perché da qui al 2 agosto, la marcia incoraggiante del Milan post Covid inaugurata col viaggio a Lecce (17 punti conquistati sui 21 a disposizione) può raggiungere il posto in Europa league, obiettivo già più volte declinato da Pioli («dobbiamo superare la Roma») così da evitare i tre turni preliminari che diventerebbero una complicazione in più dentro una stagione già compressa. I conti non sono complicati. Nella migliore delle ipotesi, aggiungendo agli attuali 53 punti il bottino pieno delle ultime 5 partite, Pioli potrebbe chiudere a 68, insufficiente per la Champions.
In meno di una settimana (da sabato 18 col Bologna, passando per il Sassuolo spaventa-Juve martedì 21 e l'Atalanta schiacciasassi venerdì 24 luglio), il Milan deve poi misurarsi con tre rivali di identica brillantezza avendo già centrato l'obiettivo principale. Sono le ultime montagne da scalare dopo aver scollinato felice Lazio, Juve e Napoli. Sconfitto il primo tabù (in precedenza zero punti con le prime della classe), incenerito il secondo (20 gol realizzati da Lecce in poi di cui 16 nella ripresa con risultati ribaltati e una media di due gol a partita mai toccata in precedenza se non nel 2009), non si può nemmeno pretendere da questo Milan rigenerato e ridisegnato dalla mano abile di Pioli di trasformarsi in un'armata calcistica. Quel che resta oggi negli occhi è comunque un piccolo capolavoro di abilità artigianale, impiantato sulla valorizzazione di qualche maturo esponente (Kjaer appena riscattato), sulla trasformazione da cavallo matto in pilastro del centrocampo di Kessie e sul virtuoso contagio provocato da Ibra, capace anche nei giorni di discutibile vena, di guidare il gruppo. Fonti accreditate sostengono che la famiglia Singer è rimasta infastidita dall'ultima intervista dello svedese. Può essere.
Ma sarebbe un errore doppio, nel calcio come negli affari, decidere di sbarazzarsi di Ibra non sulla base di valutazioni squisitamente tecniche ma sotto la spinta di qualche sordo rancore. Nel calcio, arruolare semplici soldatini non garantisce il successo in guerra.
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