Il "Clasico" Boca-River sarà derby del Sudamerica

La sfida tra «Xeneizes» e «Millonarios» porta fuori da Buenos Aires una delle partite più calde al mondo

Il "Clasico" Boca-River sarà derby del Sudamerica

Boca-River, in rigoroso ordine alfabetico, non è una sfida tra due squadre di calcio, ma letteratura applicata allo sport. Trovare i due club di Buenos Aires nell'inedita finale di coppa Libertadores, la Champions league sudamericana, significa aggiungere una nuova pagina nel libro delle emozioni. Per capire di cosa si tratta è necessario aprire quel libro e raccontarne qualche pagina, prendendo in prestito ad esempio Hugo Gatti, portiere leggendario che attraversò le due sponde. Nel 1967, quando difendeva la porta del River Plate, profanò la «Bombonera», oltraggiò El SuperClasico. Si sistemò a pochi passi dalla curva del Boca Juniors mentre in campo cominciò a piovere di tutto. Un'autentica grandinata di oggetti. Tra cui una scopa. «El Loco» non fece una piega. Non richiamò neppure l'attenzione dell'arbitro. Non si lamentò per il lancio di biglie e lattine che avrebbero potuto aprirgli la testa a metà come un cocomero. Si limitò a raccogliere da terra la scopa e cominciò a ramazzare l'area di rigore, a partita in corso, lasciando incustodita la porta. Poi si tolse la maglietta da portiere, mettendo in bella mostra una t-shirt con i colori azul y oro, quelli del Boca, la sua ex squadra. Lo stadio esplose in un boato assordante. Come se fosse stato appena realizzato un gol.

Se Gatti fu la scheggia impazzita, Diego Maradona trasformò la sfida in qualcosa di epico e il Boca in una religione da design. Eppure con gli xeneize disputò una sola stagione, nel 1981, vincendo il titolo Metropolitano e diventando la divinità chiamata a perpetrare la speranza laica. La firma sull'accordo fu apposta davanti alle telecamere di Canal 13: Maradona apparve in compagnia del presidente del Boca, Martin Benito Noel. Quattro pagine di contratto, un impegno finanziario quasi da dissanguamento. Al Pibe andò un ingaggio da 600 milioni di lire, più 720 milioni di stipendi per due anni, premi per 250 milioni e un premio di 600 milioni per le amichevoli: totale 2 miliardi 170 milioni di lire. Si mosse persino la casa automobilistica Toyota che offrì un miliardo e 200 milioni di lire per potere associare la foto di Maradona all'ultimo modello delle sue auto.

Tanti sono i campioni di questo sport che hanno giocato il SuperClasico, da Maradona a Sivori passando per Di Stefano, Batistuta, Passarella, Francescoli, Tevez e Higuain; tutti concordi nell'affermare che quello che si vive in quei 90 minuti non è replicabile in nessuna altra parte del pianeta. Sì, perché Boca e River rappresentano non solo le due anime di Buenos Aires, ma due modi discrepanti di concepire il calcio. Operaio e orgoglioso quello degli xeneize. I genovesi. Perché furono gli immigrati liguri a fondare il club. Sofisticato e millonarios quello del River. La squadra dei quartieri alti, dell'aristocrazia. È semplicemente El SuperClasico, che vive ben oltre le 246 partite fin qui disputate dal 24 agosto del 1913. Una festa di luci e colori, una passione che abbatte discrepanze culturali, sociali e sportive: alla «Bombonera» così come al «Monumental», perché invertendo i fattori il risultato non cambia. In quei novanta minuti da vivere in apnea il sistema nervoso dei calciatori viene messo a dura prova, anche quello dei professionisti più navigati. Tutto questo si ripeterà il 7 e il 28 novembre: in palio c'è la corona di regina del Sudamerica.

A rendere

più suggestivo l'evento la sfida tra Marcelo Gallardo e Guillermo Barros Schelotto, non solo due allenatori, ma bandiere dei rispettivi club per 22 stagioni. Gli ingredienti per due notti da delirio ci sono proprio tutti.

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