Stavolta ha aspettato che la partita finisse. Non ha potuto abbandonare lo stadio, la vita, prima del fischio finale. La notte, come accade con i campioni, ha spento l'esistenza lunghissima di Giampiero Boniperti. È stata, la sua, la storia lunghissima di un uomo, di un calciatore, di un presidente e della squadra, la sua squadra, unica, la Juventus. La memoria ultima si era offuscata come le nebbie sui prati di Barengo, quello è stato il rifugio antico e di sempre, insieme con il calcio, il profumo di olio canforato, le scarpe con i tacchetti di legno e i chiodi, il pallone di cuoio duro, con le cuciture e la vescica di maiale, l'urlo del popolo dietro le reti di mille campi, una avventura incominciata con l'astuzia di un ragazzo che scopriva la città ma non voleva staccarsi dalla sua terra di origine. Raccontava: «Io avevo firmato il cartellino per il Momo ma, sentimentalmente, il mio cuore era per la squadra del mio paese, il Barengo, e desideravo che, nel passaggio alla Juventus, anche quella società avesse qualche guadagno. Andò a finire così: prezzo di acquisto 60.000 lire; 30.000 furono per il Momo e 30.000 per il Barengo... era il 22 maggio 1946, tornammo a Torino. Sulla Topolino del dottor Perrone. L'appuntamento era allo Sporting, vidi per la prima volta Sentimenti IV e Rava, Parola e Piola, Varglien II e Locatelli, Coscia e Depetrini, insomma conobbi la mia Juve. Poi andammo al campo: l'avversario era il Fossano e mi marcava un giocatore vero, anche se un po' in là con gli anni. Era stato lo stopper del Torino. Vincemmo 7-0 ed io segnai 7 goal... mi fecero firmare il cartellino nel sottopassaggio che portava agli spogliatoi».
Giampiero Boniperti era forte e tenace, conservava la scorza dura del contadino, sabaudo e piemontese tutto, non concedeva nulla ad affetti e passioni, era sicuro di tutto e di tutti, da feroce attaccante si trasformò in astuto centrocampista, lo stesso fece sfruttando il diploma di geometra per la carriera dirigenziale, esempio unico, esclusivo, da calciatore a consigliere, da amministratore delegato a presidente. Boniperti è stato per la Juventus quello che Vittorio Valletta fu per la Fiat, uomini giusti al posto giusto, scelti da Gianni Agnelli che di altro voleva occuparsi e per questo aveva delegato fabbrica e squadra di football in mani sicure. Non frequentava salotti borghesi e nobiltà, Giampiero, mai lo si vide in cene amichevoli con i dipendenti di campo, giammai con i giornalisti tenuti a distanza: «Digli a quel Brera che gli sciolgo i cani contro...!» mi urlò al telefono, dopo aver letto un pezzo con il quale il Maestro lo aveva urtato. In verità con Gianni andava a caccia di fagiani tra le risaie di Barengo, per concludere le mille parole tra un piatto di paniscia e bottiglie di barbacarlo.
Era spigoloso e fuggiva non soltanto al termine del primo tempo ma da qualunque intervista, nei rari incontri con i cronisti voleva dimostrare di essere più forte di sempre, piazzava la mano ferma sulla scrivania, caricava il braccio e alzava il corpo a bandiera: «Tu non sai che cosa significhi calciare un corner. Ai miei tempi i francesi giocavano con un calzettone diverso dall'altro». I suoi tempi furono meravigliosi, mercoledì ventuno di ottobre del 53, nello stadio imperiale di Wembley, davanti a novantasettemila spettatori, si giocò Inghilterra-Resto del Mondo, finì 4 a 4, due gol mondiali furono segnati da Kubala, altri due da Giampiero Boniperti, unico italiano convocato. Di quel pomeriggio fantastico conservava la divisa oltre all'orgoglio superbo. Aveva la personalità giusta per guidare un club e una squadra, pure di suggerire la formazione: «Quattro occhi vedono meglio di due» mi disse Giovanni Trapattoni quasi a giustificazione delle malelingue. Non si faceva trascinare dall'affetto, Giampiero, chi mostrava di non essere più utile e prezioso per la causa della vittoria, veniva fatto accomodare altrove, Genova, Bologna, Ascoli. Era sicuro di sapere e conoscere tutto, quando Gianni Agnelli gli riferì che un giovane argentino fosse di classe mondiale, Boniperti così replicò: «Se fosse davvero il migliore, lo saprei». Si trattava di Maradona, ci fu il tentativo di prenderlo, con abitudini piemontesi, in prestito ma nulla accadde. Il suo football prevedeva sudore e sangue, Benito Lorenzi, veleno livornese, per sfotterlo lo soprannominò Marisetta e poi Marisa, per l'ondame dei biondi capelli e gli occhi color del cielo. Schiumava rabbia, Boniperti, quando qualcuno osava ricordare l'appellativo, se soltanto ti fossi avvicinato, di fianco o davanti, avresti fatto la fine di Brera e dei cani sciolti dalle catene.
Riposerà nella sua terra di fagiani e risaie, non avrà funerali pubblici, perché mai Giampiero Boniperti ha amato rendere manifesta la propria vita. Il silenzio della notte ha portato via un'altra fetta della nostra memoria.
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