Il primo incontro non andò benissimo. «Ti passo l'Avvocato». Michel Platini, al telefono con Giampiero Boniperti, rimase stupito: «L'avvocato? Non ho bisogno di avvocati. Chi è?». Come inizio di una storia bella non c'era da essere ottimisti. Ma poi, cinque anni di vittorie e di gloria, la scoperta di un altro calcio, di un altro mondo, di un'altra famiglia.
«Gli Agnelli non erano nella mia vita e così nemmeno la Juventus. A Nancy seguivamo le partite internazionali ogni domenica sera, calcio inglese e tedesco, quindi Inter e Milan che giocavano e vincevano le coppe europee».
Poi qualcuno informò Gianni Agnelli.
«Fu Edouard Seidler, direttore de l'Equipe, a segnalargli il mio nome».
La storia cambiò la sera di Francia-Italia, ventitré di febbraio del 1982.
«Vincemmo 2-0, segnai un gol, mi marcava Tardelli».
Dunque?
«L'avvocato seguì la partita in tv, telefonò a Seidler la sera stessa e, il giorno dopo, un inviato della Juventus (Franco Barettini, consulente di fiducia di Boniperti) raggiunse, a Marsiglia, il mio procuratore di allora, Bernard Genestar».
Seguono cinque anni e tutto il resto, non soltanto l'Avvocato.
«Credo che per gli Agnelli la Juventus sia stata e sia ancora storia, passione, immagine, una specie di bolla nella quale osservare la propria tradizione secolare, un caso unico, mondiale».
Nel senso?
«Nel senso che altrove ho conosciuto presidenti e imprenditori proprietari di un club di calcio ma gli Agnelli non erano solo questo, erano e sono una famiglia legata al calcio non per interessi esclusivamente finanziari».
La realtà è cambiata.
«Il potere finanziario degli arabi è inavvicinabile, questo spiega l'attuale difficoltà della Juventus, nonostante la solidità della famiglia, così come gli affanni degli altri club europei in una sfida impossibile e senza controllo delle istituzioni».
Cento anni sono qualcosa d'altro di una semplice passione.
«Agnelli e Juventus non sono soltanto il calcio, sono una istituzione».
Gianni e Umberto parlavano in francese nei vostri incontri?
«Sì, sempre, un ottimo francese con accento piemontese, Umberto aveva una pronuncia leggermente migliore».
Quale tipo di rapporto avevano con la squadra?
«Di massimo rispetto e di una confidenza discreta, Gianni, Umberto, Lapo e John, molto riguardosi nei nostri confronti, mai un segno o un comportamento da ricchi padroni, con la puzza al naso o per dimostrare la loro ricchezza. Così anche Edoardo, che conobbi soltanto nella trasferta di Tokyo per la finale intercontinentale. E così soprattutto Giovanni Alberto, con lui passammo quindici giorni del ritiro a Villar Perosa, Giovanni voleva allenarsi con noi, in verità, a sera, fuggiva a Montecarlo per qualche discoteca».
Andrea Agnelli?
«Il più immediato, il più tifoso, il più amico come si potrebbe intendere. Così sua madre donna Allegra verso la quale provo un sentimento di affetto, credo corrisposto, per ragioni che vanno oltre lo sport».
Platini, la Juventus, gli Agnelli una storia finita sul campo di gioco.
«Avrei potuto accettare l'offerta dell'Avvocato, mi convocò nella sua casa e mi chiese di incominciare a lavorare per lui e per il club. Decisi di tornare al mio porto d'origine».
Gli Agnelli non hanno soltanto un suo ricordo da calciatore, c'è qualcosa d'altro.
«L'Avvocato festeggiò i suoi 70 anni da Maxim's a Parigi. Io fui tra gli invitati, non sapendo con quale regalo presentarmi, scelsi di donargli uno dei miei tre palloni d'oro, con un bigliettino di accompagnamento: questa è la sola cosa che lei non potrà mai conquistare».
Quel Pallone è ancora nelle proprietà della famiglia.
«John lo aveva nella casa di Parigi, poi non so, forse lo hanno portato al Museum, forse è ancora in Francia. Ma il ricordo di quella festa è per me unico».
Come festeggerà i cento anni di questa storia?
«Parteciperò, a Torino, ad un grande evento il 9 di ottobre. Non posso dire altro».
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