"Fede, adrenalina e leggerezza. L'impresa è andare in finale"

Parla il tecnico della Pellegrini che oggi tenterà l'accesso nei 200 sl. Mai nessuno nel nuoto a giocarsi l'oro in 5 edizioni

"Fede, adrenalina e leggerezza. L'impresa è andare in finale"

Lei dice sempre: «Prima della gara sono un mare in tempesta e lui lo scoglio a cui aggrapparmi, mi aiuta a liberare la testa, è ancorato a terra, pressioni e stress non lo smuovono, Matteo ha una fermezza e una forza interiore che non avevo mai visto in nessun altro». E lui risponde sempre con l'irremovibile pacatezza dello scoglio abituato alle onde alte e ai venti: «È solo perché ha fiducia in me». Federica Pellegrini e Matteo Giunta, la grande campionessa e il giovane coach, per la verità adesso meno giovane, sono 39, quasi dieci anni di allenamenti e gare assieme, fatiche, riflettori puntati, gossip, invidie, critiche, applausi, medaglie sfiorate, medaglie vinte, medaglie stravinte come ai Mondiali di Corea del 2019 «quando sull'onda dell'entusiasmo abbiamo deciso di puntare a Tokyo, in fondo un altro anno, ne avrò 32 mi disse Fede... Poi non è stato solo un anno». E oggi, ore 12, le batterie dei 200 stile.

A 33 anni, non 32.

«Quando i tempi si allungano per eventi imparabili come una pandemia, i sacrifici fisici e mentali diventano enormi. Ma Fede voleva l'olimpiade, nessuno nel nuoto, uomo o donna, ha mai raggiunto la quinta finale. Le sembrava brutto fermarsi a un passo... Ed eccoci qua».

Mai una titubanza?

«Era convinta delle sue scelte».

Tu la roccia, lei il mare in tempesta.

«Alla base del rapporto allenatore-atleta, ma anche di tutti i rapporti umani che funzionano, c'è la fiducia. A maggior ragione in uno sport molto difficile, in cui il talento dà sì un piccolo vantaggio ma poi se non è supportato da duro lavoro e sacrificio non arrivi da nessuna parte. Mi ha chiesto solo se anche per me era fattibile allungare le fatiche di un anno. Sì, le ho detto».

Avresti avuto la forza di dirle no?

«Sì, se non avessi creduto nelle sue capacità, glielo avrei detto. Perché non facendolo l'avrei messa in difficoltà. E un'atleta come lei non se lo merita».

Lo scorso autunno ha preso il covid. Tante le critiche per aver mostrato la propria disperazione.

«Nel 2017 e 2019 ha vinto due mondiali. Entrambe le stagioni precedenti erano state perfette come avvicinamento e preparazione fisica senza intoppi. Dosare carichi e recuperi con l'andare avanti nell'età diventa sempre più un lavoro minuzioso e preciso. Lei l'autunno scorso sapeva che per poter essere competitiva ora a Tokyo doveva fare una anno perfetto. Prendere il virus nel momento in cui iniziava a spingere l'ha portata a pensare ecco, questo è l'ostacolo che non mi permetterà di essere pronta. Di più: l'aveva vista come la parola fine alla carriera, dato che il covid lascia strascichi e mina la preparazione. Reazione molto umana, sincera e apprezzabile far vedere questo lato di debolezza, tanto più di una donna considerata d'acciaio. Andava apprezzata, non criticata».

Hanno parlato tutti della sua reazione.

«Viviamo in un Paese in cui ogni cosa deve avere una connotazione polemica o politica. La politica non c'entra con lo sport, e confondere i due mondi usando risultati o reazioni degli atleti per parlare di virus, di aperture o chiusure, non aveva senso».

Dicevi di politica e sport... siamo reduci dai teatrini dell'inginocchio sì o no.

«Sicuramente viviamo in un mondo in cui la battaglia sociale e politica si divide tra politicamente corretto e scorretto, tra bianco e nero. Sono per conoscere il motivo di certi gesti. La verità è che se fermi la partita dopo un insulto e la squadra ti segue, quello sì è un gesto che serve...».

Quando a fine 2014 hai iniziato a seguire Federica venivi dato per troppo inesperto; lei per troppo incosciente ad affidarsi a te.

«Sono cresciuto tanto, anche Fede. Per entrambi uno degli aspetti più positivi è stato poter arrivare a Tokyo godendoci il momento, persino le gare, senza quel tarlo addosso di dover per forza portare a casa qualcosa di importante».

Serena adrenalina?

«Sì, come in Corea due anni fa. Arrivò che non era assolutamente tra le favorite ma dopo un anno di preparazione vissuto in leggerezza. E ottenne quel risultato impossibile alla vigilia. Quindi sì, anche ora, nonostante l'intoppo covid, sentiamo addosso una serenità che paga»

Fede un giorno ha detto: lui così giovane allenandomi ha rischiato di bruciarsi; ma io avevo più da perdere, ero la campionessa.

«Sì, un insuccesso avrebbe potuto tagliarmi subito le gambe. E con il brutto mondiale in vasca corta a Doha, nel 2014, ci sono arrivato vicino. Per fortuna l'anno dopo a Kazan ecco i risultati. Quanto a lei, ha rischiato perché ha fatto una scelta che al tempo nessuno comprese e tutti criticavano, ci ha messo la faccia».

Ma perché ha scommesso su di te?

«Non ero uno sconosciuto, dal 2012 al 2014 ero stato il vice di Lucas, il suo allenatore. Aveva fiducia. Quando un atleta si convince di questo, riceve la spinta più forte a migliorarsi. Lo dico sempre: posso proporre la mezzora di allenamento perfetta per l'atleta, ma se non è convinto, non ha piena fiducia, il risultato sarà sempre inferiore rispetto a un percorso tecnico sbagliato ma in cui il nuotatore crede...».

Come giudichi oggi la preparazione di Fede?

«Agli Europei ha fatto un numero di gare mai disputate in passato... E ha quasi 33 anni. Purtroppo l'anno di rinvio ha permesso ad altre atlete giovani di rinforzarsi, penso all'australiana Titmus (nei trials ha fatto tremare il record mondiale di Fede del 2009 con costumoni, 1'5309, + 11 centesimi, ndr)... Il parco partenti è mostruoso».

Per cui...

«I 200 di oggi sono di qualità incredibile. A noi piacciono le sfide impossibili ma oggettivamente già il solo accedere alla finale sarebbe qualcosa di grandioso. Certo, una volta là proverà a giocarsela. Ma resta che sarà molto difficile entrare in finale».

Comunque vada, poi la parola fine?

«La pronuncerà quando davvero vorrà smettere».

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