Follia del tifo anche in Spagna. Ultrà muore nel Manzanarre

Un uomo di 43 anni, circondato, precipita nel fiume di Madrid. Vince l'ipocrisia: federazione chiusa, partita giocata lo stesso

Un tifoso del Deportivo Coruna assiste al match con l'Atletico Madrid
Un tifoso del Deportivo Coruna assiste al match con l'Atletico Madrid

Lo chiamavano Jimmy. È morto, per sfuggire ai tifosi dell'Atletico di Madrid, precipitando nelle acque del Manzanarre, il fiume che scorre vicino allo stadio Calderon del club dei materassai, i colchoneros così chiamati per il colore delle loro casacche. Tre ore prima della partita tra Atletico e Deportivo, prevista a mezzogiorno, gli hooligans hanno incominciato la loro guerriglia.

Il vero nome e cognome di Jimmy era Francisco Javier Romero Taboada, aveva quarantré anni e lascia la moglie e un figlio. Lo hanno spinto alla tragica fine durante l'agguato che i tifosi dell'Atletico hanno teso ai loro rivali non appena scesi dagli autobus che li trasportavano da La Coruña. Un raduno di delinquenti che qualcuno si ostina a chiamare ultras. Si erano dati appuntamento grazie ai social network, la rete serve anche a questo, il tam tam ha portato a scontrarsi le bande del Frente Atletico del Deportivo (di destra, già coinvolti nell'assassinio di un tifoso nel '98), i Bukaneros (di estrema sinistra) del Rayo Vallecano e dell' Alkor hooligans dell'Alcorcon, uniti dalla stessa voglia di battersi, con i coltelli, i bastoni, le mazze da baseball, le catene. Jimmy è stato scaraventato di peso nel fiume, i pompieri lo hanno riportato a riva ma Romero Taboada, trasportato in ospedale, ha cessato di vivere per trauma cranico, ipotermia e infarto. Jimmy faceva parte della fazione più radicale dei tifosi del Deportivo, i Razor Blues, all'interno della quale si era formata una frangia ancora più estremista, detta Los Suaves. La polizia ha arrestato ventiquattro delinquenti con l'accusa di attentato, resistenza e disobbedienza e ha identificato altri sessanta tifosi.

La battaglia campale ha lasciato lungo le strade, vicine al Calderon, calle San Rufo, Virgen del Puerto, paseo de la Eremita, sangue e chiodi e bastoni. La Lega professionistica calcistica spagnola aveva deciso di rinviare la partita, i due clubs si erano detti disponibili ma i responsabili della stessa Lega non sono riusciti a mettersi in contatto con la federcalcio spagnola, la sola che poteva sancire la sospensione dell'evento e il suo rinvio.

Accade in Spagna quello che è accaduto e può accadere anche nel nostro football. L'unico giorno in cui le istituzioni, Federcalcio e Lega, sono chiuse, coincide proprio con il giorno di svolgimento delle partite. E' un paradosso che si trascina da sempre e l'avvento di telefoni cellulari e internet non ha risolto l'idiozia burocratica.

La reazione delle forze di polizia ai disordini è stata differente rispetto alle nostre abitudini, basti verificare il numero di arrestati, non di semplici fermati. Semmai la coscienza, etica e civile, del mondo calcistico resta opaca. Lo spettacolo va avanti prescindendo dal o dai morti, l'alibi è sempre lo stesso, gli incidenti nulla hanno a che fare con il gioco, si svolgono fuori dal tempio, la città appartiene ad altri, estranei. Senza comprendere che è proprio il football ad attirare le bande di delinquenti, è proprio il football, nello specifico i calciatori e gli allenatori, a essere complice e a giustificare le fazioni più radicali, estremiste, violente. A Roma, a Napoli, a Milano, dovunque in Italia e nel resto d'Europa la partita di calcio è l'occasione per raggrumare la feccia della popolazione. Non servono leggi, semmai l'applicazione delle stesse e il senso dello Stato, dunque del rispetto. Il buonismo e il perdonismo hanno ucciso tutto questo.

Il raduno organizzato con i messaggi su Whats App era previsto, annunciato, la battaglia ha coinvolto duecento malviventi, la

morte di Francisco Javier Romero Taboada non cambia la commedia e il teatro nel quale essa si svolge. Una vita che finisce vale meno di un pallone che finisce in porta. Ieri, oggi, domani, si continua a giocare. Si deve.

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