«Gli ho fatto i miei migliori auguri di buon mondiale, lui che può ancora giocare e inseguire un sogno con la sua Danimarca. Siamo amici di cuore, nel senso che entrambi andiamo a pila, abbiamo un defibrillatore sottocutaneo: solo che lui è un calciatore e io ero un corridore. Lui gioca in uno spazio ristretto, controllato e circoscritto, quindi più sicuro, mentre noi ciclisti non abbiamo spazi delimitati o campi, ma ci muoviamo in spazi e strade infinite, con salite e discese, curve e strettoie. E se il cuore mi si dovesse ancora una volta fermare come il 21 marzo scorso (al termine della prima tappa della Vuelta Catalogna, ndr)? Sarebbe terribile per me, ma anche per chi è in gruppo con me. Per questo ho detto basta». Sonny Colbrelli rivela di aver sentito Christian Eriksen alla vigilia dell'esordio mondiale della Danimarca.
Cosa si prova dopo una stagione record come quella del 2021 nella quale ha conquistato tricolore, europeo e Roubaix, ad essere a soli 32 anni di colpo un pensionato?
«Si prova un senso di grande amarezza, ancora adesso, la mia decisione non l'ho ancora metabolizzata, ma non c'erano altre opzioni: il rischio era troppo elevato. Il rispetto per la vita, per la mia compagna Adelina e per i miei due bimbi Vittoria e Tomaso, per Tomas mio fratello, per Fiorelisa e Federico, i miei genitori... era una priorità assoluta. So che è giusto così, ma dentro di me sento ancora che non era giusto finire così».
E adesso?
«Si va avanti. Ci si reinventa, si prova a trovare un nuovo equilibrio, anche se il mio era in sella ad una bicicletta. Se ci vado ancora? Certo! È la mia la mia. Però adesso, al mattino, non penso più: Sonny, vestiti e vai in bicicletta. Adesso il primo pensiero è: Sonny, vestiti c'è da preparare la colazione ai bimbi. Riparto con un contratto di due anni con la Bahrain-Victorious fino al 2024, avrò un ruolo alla Valverde alla Movistar, cioè di raccordo tra corridori e staff».
Torniamo al cuore, torniamo a Eriksen: lei ha anche pensato di continuare?
«Ho pensato anche di andare all'estero, visto che qui in Italia l'abilitazione sportiva non te la danno sei hai un defibrillatore. Le ho pensate tutte. E ancora adesso, fatico a pacificarmi. Poi, però, devo essere anche realista; sono già fortunato ad essere qui. Ho avuto tante gioie e so che avrei potuto averne molte di più. Ero al massimo della mia carriera: 4-5 anni di grande ciclismo le avrei avute. E, non giriamoci tanto in tondo, anche di guadagni: ma a che prezzo? Quello della vita? No, meglio togliersi il numero».
Diventerà anche imprenditore?
«Ho creato un logo, con il mio Cobra. Per incominciare faremo 71 biciclette speciali (il 71 era il numero della Roubaix, ndr) e poi farò anche l'ambasciatore, il consulente, il testimonial e potrei anche tornare sui libri per studiare da direttore sportivo. Ma il sogno è fare un team di giovanissimi come Pogacar, Nibali e Contador. Nel Bresciano, alcune squadre di giovanissimi pedalano nel parcheggio di un supermercato: non è giusto! Bisogna fare qualcosa. Devo fare qualcosa!».
Eriksen gioca, lei no.
«Come le ho detto, il mio sport non è il calcio, ne ho parlato anche con Christian che mi contattò quando ero ancora ricoverato in Spagna. Ci siamo messaggiati anche ieri, per me la sua amicizia è motivo di conforto».
Le resta qualche rimpianto?
«Il Giro delle Fiandre, poi però penso e mi dico: ma quanti possono dire di aver vinto come ultima corsa della carriera la Parigi-Roubaix? Io lo posso dire e lo posso raccontare».
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