Liverpool re d'Inghilterra. È il riscatto della storia sui nuovi ricchi del calcio

I Reds odiati in patria e amati nel mondo. E un'attesa infinita prolungata dal virus

Liverpool re d'Inghilterra. È il riscatto della storia sui nuovi ricchi del calcio

Hanno dovuto aspettare trent'anni. Hanno giocato millecentocinquantuno partite, hanno sofferto per centotremilaquattrocentodieci minuti, hanno segnato millenovecentosessantotto gol, hanno speso un miliardo e quattrocento milioni di sterline, hanno schierato duecentotrentanove calciatori, è stata la squadra di Dalglish e di Rush, di Souness e Lee, di Fowler e di Gerrard, di Bob Paisley e di Benitez, è stata la storia di una città che i Beatles portarono in giro per il mondo, è l'inglese scouse, è un dialetto impossibile, è l'ironia di Bill Shankly «Ci sono soltanto due squadre nel Merseyside, il Liverpool e le riserve del Liverpool», è il posto delle fragole, Strawberry fields forever, è Penny Lane con il suo negozio di barbiere, è Anfield Road, è You'll never walk alone, sono i muri di carbone nero, è il rumore lontano del porto. È il calcio. È Liverpool.

Trent'anni sono un tempo lunghissimo però volato via in novanta minuti, dopo il buio e la paura del virus, perché a lucidare il diciannovesimo titolo è bastato sedersi davanti al televisore e godere ai massimi, osservando i londinesi russi del Chelsea spegnere gli ultimi fuochi di presunzione degli arabi del Manchester City. Liverpool ha trascorso la notte più lunga, svuotando i barili di lager e di bitter nei pub, ballando, clandestinamente, in Victoria Street. È arrivato un tedesco occhialuto per realizzare il sogno. È arrivato un tipo che non ride ma ghigna, un crucco con una parte di spirito latino, uno che sa tenere alta la gioia del gioco e, insieme, esige disciplina e rispetto delle regole insegnate. Il Liverpool campione è una festa per chi ama il calcio, corre e diverte, picchia e stuzzica, provoca e castiga, è made in England con il timbro tedesco e l'universalità di egiziani e brasiliani, olandesi e giapponesi, roba sopraffina che ha conquistato anche la Champions dopo averla smarrita per colpa di un portierino senza futuro e nemmeno presente, tale Karius di cui si narra nelle barzellette oscene.

È il club degli americani Henry e Werner che, tra i soci, hanno coinvolto Lebron James, per il 2% di quote e 6 milioni e mezzo di dollari, oggi il valore di quelle azioni della leggenda del basket è di 40 milioni di dollari.

Una squadra solida, con un popolo di tifosi che ha pagato la tragedia dell'Hillsborough dopo la vergogna dell'Heysel, è il Liverpool delle due finali con il Milan, è la seconda squadra di qualunque tifoso nel mondo, lontano dall'isola della regina Elisabetta. Non camminerai mai da solo, non è soltanto un inno ma la voce che accompagna i calciatori e la gente di Liverpool, snobbata dai londinesi, disprezzata dai vicini di Manchester.

Trent'anni sono trascorsi all'ombra di nuovi ricchi e di un football trasformato ma, alla fine, uguale a quello dei pionieri. Il popolo dei tifosi aspetta l'autorizzazione del municipio per partecipare alla sfilata del red bus con i campioni. Il virus non può cancellare la storia. Il Liverpool è la storia.

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