"Macché Cerezo..." E il Milan e il mondo scoprirono Kakà

Ancelotti: «Lo descrissero così ma quando lo vidi giocare pensai mi hanno preso un fuoriclasse»

"Macché Cerezo..." E il Milan e il mondo scoprirono Kakà

Dopo Ronaldo, il fenomeno, quello vero ripetono in Brasile, e prima dell'altro Ronaldo, Cristiano intendiamo, e Leo Messi, c'è stato soltanto lui. Lui è Ricardo Izecson dos Santos Leite detto Kakà, l'ultimo Pallone d'oro raccolto dal calcio italiano grazie al Milan che sta vivendo una tormentata stagione di passaggio dai trionfi berlusconiani alle incertezze cinesi. Giusto dieci anni fa, in questi stessi giorni, dall'altra parte del mondo, a Yokohama, Giappone, sempre lui, Kakà alzò la coppa del mondiale per club spianando il Boca Juniors. Sembra passato un secolo a vedere quel Milan mal ridotto arrancare a Verona. Ieri Kakà, 35 anni suonati, ha scelto di chiudere la carriera che ha conosciuto le sue cadenze più spettacolari dalle parti di San Siro, in rossonero, e in giro per l'Europa. L'ultima esperienza, vissuta negli Usa con gli Orlando City, gli ha regalato solo la dolorosa certezza d'aver concluso la prima tappa di un lungo viaggio nel mondo del calcio.

A Milano arrivò con gli occhialini da studente universitario, scoperto da Leonardo e scortato da Braida, preceduto da una discutibile descrizione tecnica. «Mi dissero: somiglia a Cerezo. Dopo il primo allenamento chiamai Galliani e gli dissi: ma quale Cerezo, avete preso un fuoriclasse!» il racconto dell'epoca firmato da Carlo Ancelotti. Il quale impiegò qualche settimana per mettere da parte Rui Costa e persino Rivaldo per sagomare il suo Milan con l'estro, la tecnica purissima e le giocate di Riccardino come venne poi ribattezzato a Milanello.

Mai una chiacchiera sulla vita privata scandita dal matrimonio con Caroline e l'arrivo dei due figli, a Milano chiese e ottenne lo status di cittadino italiano e con quella maglia numero 22 sulla schiena cominciò a raccogliere lodi sperticate fino a diventare il beniamino dei milanisti che gli confezionarono su misura il coro famoso («siam venuti fin qua per vedere segnare Kakà») e una sera d'inverno, sfidando la pioggia, andarono sotto casa sua per festeggiare il suo no al Manchester City. «Il talento, da solo, non basta»: il titolo di una sua intervista a il Giornale divenne la colonna sonora del Milan che dopo l'atroce sconfitta di Istanbul (2005), ebbe la forza di rialzare la testa e veleggiare verso Atene dove Kakà fu il suggeritore del decisivo 2 a 1 siglato da quella volpe dell'area di rigore chiamata Pippo Inzaghi.

L'unico, immenso Kakà è stato quello visto e conosciuto a Milano. Perché poi a Madrid, esibito come una corona finalmente conquistata da Florentino Perez, quella luce si spense, quel talento rimase inespresso e nemmeno il ritorno successivo al Milan gli consentì di guadagnare un posticino al mondiale brasiliano invano inseguito. Dovette accontentarsi di entrare in campo col figlio per mano il giorno del debutto della Seleçao verde oro che andò poi incontro alla più terribile delle delusioni. Adesso che Kakà ha scelto di togliersi gli scarpini c'è una scrivania che lo aspetta. Riccardino ha una nuova compagna al suo fianco, Carolina Dias, ma ha conservato il suo cordone ombelicale con il Milan. E dalle parti di via Aldo Rossi ci sarebbe un disperato bisogno di recuperare la memoria del periodo d'oro anche per rimediare all'ultimo giudizio sferzante di Fabio Capello («quelli del nuovo corso non sanno cosa sia il rispetto»).

Uno come Kakà, magari nelle vesti di vice-presidente, rappresentante diretto dell'azionista Youghong Li, farebbe comodo a Fassone per avere uno che conosce il dna rossonero ed è capace di andare davanti alle telecamere senza provocare un conflitto al giorno.

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