L'ultimo mohicano del tennis italiano è arrivato per ultimo. Sembra un gioco di parole, ma ieri Stefano Napolitano era l'unico azzurro residuo a Roma: a 29 anni, dopo aver vinto i primi match di un Masters 1000, è una bella soddisfazione. Poi è finita che ha lottato e perso in tre set con Jarry (6-2, 4-6, 6-4), ma non importa: «La mia storia dimostra che c'è sempre tempo per arrivare, che tu abbia 20, 29 o 35 anni». Prima di un domani da chef con le polpette della nonna come esempio.
Finalmente, Stefano.
«Sono stati anni complicati».
Cominciamo dall'inizio.
«Nasco in una famiglia di tennisti biellesi: papà, mamma e sorellona. Sempre in mezzo a racchette e palline: a 11 anni ho mollato il calcio».
Junior a tempo pieno.
«Ho vinto i campionati italiani under 12, a 14-16 anni ero tra i migliori d'Europa, da under 18 il numero 9 del mondo, Nel 2017 best ranking: 152».
E poi?
«Ho avuto fretta: primi problemi alla spalla, tra uno stop e l'altro giocavo e insistevo. Nel 2020 l'operazione al gomito, e appena a posto ginocchio ko».
Sfortuna incredibile.
«Ma un po' è stata colpa mia: volevo tutto e subito. Mi è servito a imparare la pazienza. Dopo un'ernia bilaterale, il percorso di recupero mi ha insegnato che ci vuole tempo, biologico e fisiologico per far si che il corpo guarisca. Bisogna prendersene cura, è come coltivare un fiore».
Mai pensato di smettere?
«Tante volte. Ma sentivo di poter fare meglio e l'aiuto di Stefano Massari mi ha aiutato mentalmente. Non ho un coach perché ora vivo a Verona, dove Flavio Di Giorgio è diventato fondamentale nel mio recupero fisico. Al momento più importante che avere una figura tecnica».
Partito con i Big 4, ora è il tempo di Sinner.
«Loro li ho visti da lontano, per me erano degli alieni. Jannik invece fa parte di un gruppo di nuovi campioni straordinari capaci di rimanere umani. E questo è molto bello».
A proposito di fretta: con l'anca ne ha avuta?
«No: Jannik è sempre stato equilibrato, è sempre molto lucido nel gestire le difficoltà».
A proposito di pazienza: i ragazzi d'oggi non ne hanno.
«Oggi i modelli di riferimento sono vicini alla perfezione e sembra che quello che non è perfetto sia non accettabile. Ma si può fallire un miliardo di volte e fare poi una cosa sola che diventa importante. Bisogna essere liberi di sbagliare e uscire da queste regole che mettono paura. Il mondo è pieno di giovani talenti nascosti: l'ho visto qui a Roma parlando coi ragazzi».
Quale sarà
il tuo futuro?«Prima di tutto non farsi male. E voglio trovare il limite, arrivare a giocare con i più forti, dirmi un alla fine di aver dato tutto quello che avevo. A quel punto potrò fermarmi ed essere felice».
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