Pelé come Ali, nomi brevi che racchiudono l'universo

La storia dello sport è piena di grandi personaggi, ma nessuno come loro è riuscito a farsi amare tanto

Pelé come Ali, nomi brevi che racchiudono l'universo

Chi più famoso? Diciamo Papa e sappiamo di chi parliamo, non importa quale sia l'interprete: diciamo sia il personaggio vivente più famoso nel mondo. E se diciamo Pelè e Ali, la lettera iniziale del nome reiterata diventa PAPA, sembra un gioco del destino o della fantasia: sono stati gli sportivi più conosciuti e riconosciuti nel mondo globale. Chi mai non ne ha sentito parlare almeno una volta? Chi mai non li ha citati seppur casualmente? Immortali da vivi, non li dimenticheremo da morti ora che anche Pelè se n'è andato. Ali ci lasciò il 3 giugno 2016. Qualcuno suggerirà che ci sono e ci sono stati altri campioni della gente, delle fede sportiva, del buon ricordo: Michael Jordan per il basket, Joe di Maggio per il baseball, Maradona che nel calcio ha conteso a Pelè la palma del più grande. Ali si era incoronato da solo come «The Greatest», sebbene sul ring ci sia stato di meglio.

«Era il migliore della storia, non il più bravo» sentenziò lo storico Bert Sugar che assecondò classifiche che vedevano davanti a tutti Ray Sugar Robinson oppure Joe Louis specificamente fra i pesi massimi, la categoria di Ali.

Pelè è arrivato prima, il suo triplete nei mondiali cominciò nel 1954, e ci ha lasciato dopo. Ali comparve alle Olimpiadi romane 1960 ed anche nel suo pedigrèe ci sono tre titoli mondiali. Piccoli segni di comparazione, sensibili segnali di una dimensione che li ha regalati al mondo così uguali seppur diversi. A modo loro sono due brand dello sport che entra nel cuore della gente: inimitabili. Ecco perché oggi la morte di Pelè ci ricorda Ali. Così fenomeni seppur uno con i piedi, l'altro con i pugni. Ma nessun altro ha esaltato la bellezza estetica dello sport, due uomini neri che hanno conquistato titoli, rispetto e dimensione che ai neri non sembrava permessa. Nomi brevi perché la gente non dimenticasse. Questo lo abbiamo scoperto dopo. Ali che prima era Cassius Clay, eppoi divenne Muhammad Ali che, tradotto, significa l'uomo di Maometto. Ma per tutti Ali. Pelè era Edson Arantes do Nascimento: celebrato come Pelè. L'uno spinto dal motivo di fede, l'altro dalla presa in giro di un ragazzino per una questione calcistica. C'è una sostanziale differenza: Ali diverrà più grande nel mondo al di fuori dello sport, Pelè manterrà la sua maestosità nei ricordi del calcio. Ma soltanto loro stagliati in una sorta di Olimpo sul quale nessun altro è riuscito a posizionarsi. Emblemi di dimensione politico-sportiva, infilati nello stesso dipinto di vita: monumenti di una perfezione del gesto e di una intelligenza di azione.

Due icone che hanno colorato lo sport, non due icone di colore. Ali e i suoi ritornelli da farfalla del ring, Pelè con quelle azioni pennellate rimaste nelle fotografie e nei ricordi: sette avversari dribblati più il portiere prima di mandare la palla in rete. Oppure il pallone che sorpassa due teste prima della conclusione al volo davanti agli occhi sbarrati di Svensson, il numero uno della Svezia nel mondiale 1954. Gianni Brera scrisse che Ali era un Arcangelo, Tristano nero. Ma quando venne martoriato dai colpi di Larry Holmes divenne un torpido bovino da macello. Non così nel resto della vita sua, dove rischiò per un credo politico che non lo voleva combattente contro i Vietcong. Uomo di pugni e di azione che, nel 1990, si imbarcò per l'Iraq ad impedire la guerra del Golfo, per chiedere a Saddam Hussein la liberazione di 350 ostaggi americani: ne riportò a casa 15. Eppoi lassù, nel 1996, ad Atlanta quando accese il tripode olimpico mostrando al mondo la sua sofferenza e la sfida al male.

Pelè, invece, si è sempre mostrato sorridente e rassicurante, uomo annesso al potere quanto l'altro era rivoluzionario: a 20 anni già definito «patrimonio nazionale» per il Brasile, recordman delle 1300 partite e dei 1300 gol. Pure lui entrò in storie di guerra, fermando Nigeria e Biafra che accettarono la tregua per vederlo giocare. Ali non badò ai danari, anzi ne fu spolpato dalle sette religiose. Pelè divenne miliardario e mercenario andando ad esplorare il calcio statunitense, sorta di slot machine per ogni atto di presenza. Scrisse Eduardo Galeano in «Splendori e miserie del gioco del calcio»: «Non regalò mai un minuto del suo tempo, e mai una moneta gli cadde di tasca». Negli istinti c'è stata la differenza e la grandezza che li ha accomunati: Pelè pianse sul petto di Gilmar dopo aver battuto la Svezia nella finale mondiale 1954. Ali tenne il pugno levato, irridente e iracondo su Sonny Liston a terra, ai suoi piedi, a conclusione del match mondiale.

Per tutto questo, e forse tanto altro, Pelè e Ali resteranno legati nella vita che fu e nella morte: dopo il Papa, gli uomini più

conosciuti del mondo tra gente povera e gente ricca, predicatori e detrattori, tra cultori dello sport e semplici orecchianti. L'addio di Pelè ci ha ricordato quanto sono stati grandi e ineguagliabili: non c'è gol o ko che tenga.

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