«Giocavamo a bestia». Detto così, con quell'accento che è tutto suo da cinema italiano, si potrebbe pensare al peggio. Ma per Ciccio Graziani era il passatempo delle sere mondiali, il gioco di carte, simile alla briscola
«Eravamo cinque o sei, Antognoni, Giovanni Galli, Bruno Conti, Dossena, Vierchowod. Mettevamo cinquemila lire a testa».
Chi vinceva?
«Beh in quanto a fortuna Galli era in vantaggio su tutti».
E Bearzot?
«Non gradiva, ci rimproverava perché giravano i soldi, erano pochi, un simbolo ma lui non voleva che il gioco si trasformasse in azzardo e in contesa».
Venne la partita, la prima, contro la Polonia.
«La mia prima da titolare in un mondiale. In Argentina avevo giocato qualche spicciolo, a Vigo arrivò il momento giusto».
A parte la «bestia» che altro, la notte prima dell'esame?
«Dividevo la camera con Antognoni, lui si addormentava prima di me e io lo scuotevo: Giancà, quando ci hai la palla guardame, amico mio dammela giusta, come in campionato. Bearzot venne in camere e ci disse: mi aspetto molto da voi, avete fatto una grande stagione è il momento per confermare tutto».
Nessun rito o superstizione?
«Mai stato superstizioso. Ho pregato sempre, vengo da una famiglia cristiana, mio zio era monaco benedettino, Don Donato, mi affidavo a Dio».
Ma doveva pur esserci qualcosa di «privato», di personale.
«Sì, non volevo che le mie scarpe da gioco venissero spazzolate e pulite dai magazzinieri, volevo farlo io perché io con le scarpe ci parlavo, non fate scherzi, non tradite, dobbiamo buttarla dentro».
La casa del Baron, a Pontevedra, il vostro albergo non era il massimo del divertimento.
«C'era una sala con il biliardo e il calciobalilla, poi un mucchio di videocassette con le partite dei nostri avversari. Poi telefonavamo a casa, non era ancora il tempo dei cellulari, alla vigilia le solite parole con mia moglie, per sapere dei bimbi. Il giorno della partita mai nessuna telefonata».
Dieta rigorosa.
«No, un buffet classico, riso, pasta al pomodoro, scaloppine al limone. Pesavo 77 chili e mezzo».
Poi la Polonia.
«Atmosfera strana, sia per loro, sia per noi, non eravamo in casa e nemmeno in trasferta, lo stadio Balaidos non aveva la temperatura giusta. Fu una partita con molta preoccupazione, si pensava a non prenderle, una traversa di Tardelli, una loro ma non molto di più».
Le parole di Sordillo.
«Il presidente venne nello spogliatoio, il suo discorso prima della partita fu di grande orgoglio e motivazione. Poi uscì e Bearzot prese a parlare ricordandoci l'importanza dell'esordio e il fatto che rappresentavamo il Paese».
Una maglia, un pallone, una medaglia di quella partita?
«La maglia di un difensore, Majewski. Poi, nella finale, quella di Matthaus. Conservo lo scrigno con le medaglie d'oro e la riproduzione della coppa».
La coppa fu disegnata da Silvio Gazzaniga, «il Giornale» ha promosso una petizione per raccogliere le firme degli azzurri e dei tifosi per il trofeo che compie 50 anni e un omaggio all'artista lombardo.
«Se è per questo io ci sono».
A proposito della coppa che era sul tavolino dell'aereo, al ritorno in Italia, dopo il trionfo, devo escludere che ci fosse un altro tavolo per la solita partita a «bestia»...
«No, ovviamente, ma io seguii lo storico scopone tra il presidente Pertini, Bearzot, Zoff e Causio, poi tornai al mio posto, avevo di fianco Dossena e mi addormentai».
Quarant'anni dopo che cosa si aspetta dai tifosi?
«Che, incontrandoci, ci dicano grazie. Sarebbe il premio migliore della gente comune, questo è il vero calcio».
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