Tre anni senza una vittoria nel Sei Nazioni, quindici sconfitte messe in fila, fino ad ora. Peggio non può andare. Eppure l'Italia ovale sul banco degli imputati ci va di rado. Stadi pieni, tesserati in aumento, birra che scorre nei terzi tempi e una passione che ogni volta che gioca la Nazionale si declina alla vecchia maniera. Il rugby è cambiato nel corso degli anni. È diventato un gioco più fisico che richiede mezzi da superman per affrontarlo ad alti livelli. L'Italia questi superuomini dell'ovale non li ha e non ti basta una star come Parisse per evitare di essere bastonati da corazzate come Irlanda, Inghilterra e Galles. Il resto del gruppo è fatto da giovani che hanno bisogno di crescere e certo, sconfitta dopo sconfitta, non sono certo messi nelle migliori condizioni per farlo. Eppure gli si perdona tutto, sperando che la partita più importante sia quella che devono ancora giocare.
A fare da collante è quella placenta comunitaria che tiene insieme un sistema fatto di giocatori, club e pubblico. «One team» c'è scritto sui muri di Twickenham o negli spogliatoi di Murrayfield, con la maglia che diventa divisa d'ordinanza per i tifosi con relative ricadute alla voce merchandising. Anche per questo la sconfitta si accetta meglio e non è un caso se Pierre De Coubertin vestì i panni dell'arbitro nella prima finale del campionato di Francia. La condivisione aiuta sugli spalti e sarebbe utile anche sul campo. L'ultima partita l'Italia l'ha vinta a Catania lo scorso novembre e sempre a novembre 2016 è arrivata la prima storica vittoria contro il Sudafrica. Quelle vittorie sono servite per rilanciare la speranza e per tenere attaccata la passione ai colori azzurri. Certo poi i risultati sarebbe bene che arrivassero. In 20 anni la crescita del rugby italiano è stata relativa. L'apice è stato toccato quando i nostri migliori giocatori sono andati all'estero. Oggi c'è un ritardo nella formazione dei giovani talenti che si trovano catapultati in una galassia più grande di loro. O'Shea crede nel gruppo e predica ottimismo.
Perdere non piace a nessuno e se per il ct è un male necessario, restare nel gruppo del Sei Nazioni diventa l'unica medicina possibile. Zebre e Benetton oggi portano risultati migliori rispetto a quelli di un anno fa. È un primo passo. Perché per vincere non ti basta Parisse.
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