Storia del tifoso juventino Marco Manfredi, lo smemorato dell'Heysel

Rimasto coinvolto nei tafferugli dello stadio di Bruxelles, dove morirono 39 persone, Manfredi svenne e fu scambiato per un cadavere. Uscito dall'ospedale in stato confusionale, tornò a casa con mezzi di fortuna. Dell'Heysel nessun ricordo

Storia del tifoso juventino Marco Manfredi, lo smemorato dell'Heysel

Agli occhi delle autorità belghe, responsabili della peggior gestione dell'ordine pubblico mai vista in uno stadio di calcio, Marco Manfredi era la quarantesima vittima dei tafferugli dell'Heysel. Ma Manfredi, tifoso juventino di 40 anni che nella vita di tutti i giorni faceva l'autista all'ospedale di Moncalieri, non era morto: era solo svenuto. Dopo il suo avventuroso ritorno a casa, nove giorni dopo la strage che ha cambiato per sempre la storia del calcio, una foto lo ritraeva vicino a un gruppo di cadaveri ammassati alla buona nei pressi dello stadio. Lui però era ancora vivo.

Riavvolgiamo il nastro. 29 maggio 1985, allo stadio Heysel di Bruxelles si gioca la partita più attesa della stagione. I tifosi della Juventus sperano che sia la volta buona: dopo la delusione di Atene di due anni prima - sconfitta contro l'Amburgo - "questa volta la Coppa dei Campioni può essere nostra". Anche Marco Manfredi lo pensa. E fregandosene della minaccia rappresentata dai tifosi del Liverpool - gli hooligans che solo l'anno prima avevano messo Roma a ferro e fuoco in occasione della finale di Coppa dei Campioni - compra con due amici i biglietti per la partita. Non sa ancora che sarà l'ultima della sua vita.

La storia è nota. Lo stadio dell'Heysel è vecchio e malandato. Alcune centinaia di tifosi juventini vengono sistemati nel settore Z, a fianco della curva avversaria. Un errore da dilettanti che costerà molto caro. Prima del match gli hooligans cercano lo scontro con gli ultras bianconeri. Che però sono sistemati dall'altra parte dello stadio. Infatti, nel famigerato settore Z ci sono famiglie con bambini e cani sciolti. E basta. Quando gli inglesi scavalcano la recinzione, gli juventini si muovono in massa nella direzione opposta. Nasce una calca spontanea che travolge tutti. Un massacro. Alla fine si conteranno 39 morti.

"A noi ne risultano 40", comunicano le autorità belghe. Per fortuna, se così si può dire, il morto si trasforma in disperso. Si chiama Marco Manfredi, lavora come autista all'ospedale di Moncalieri ed è sparito nel nulla. La famiglia lo cerca disperatamente, ma nessuno dice di averlo visto. Fino a quando un uomo con la barba lunga, i capelli arruffati e i vestiti sporchi viene visto aggirarsi in evidente stato confusionale davanti all'ospedale Le Molinette di Torino. È lui, Manfredi. Lo riconosce un collega. Che gli chiede dove fosse finito. "Giravo il mondo", dice. "E lo stadio?", gli chiedono. "Non lo so", la sua risposta appena sussurrata.

Manfredi non ricorda nulla della strage di Bruxelles. Racconta soltanto di essere partito da Torino con due amici. Poi il buio. Pian pianino, gli inquirenti ricostruiscono la sua storia. Coinvolto nei tafferugli, Manfredi ha perso conoscenza. Portato in ospedale, si risveglia e convince i medici di stare bene: viene dimesso. L'autista di Moncalieri ha poche certezze. Capisce di trovarsi a Bruxelles e si ricorda di venire da Torino. In tasca ha pochi soldi. Sopravvive e si muove con alcuni espedienti. Infila una multa dietro l'altra (con i controllori che fanno finta di niente) e trangugia quel poco che riesce a rimediare: mele, pezzi di pane, croste di formaggio. La sua traversata nel deserto dura nove giorni. Poi il lieto fine.

Quando è già a casa, Famiglia Cristiana pubblica una foto dell'Heysel.

La moglie Rosita e mamma Carla lo riconoscono: ha il volto e il corpo parzialmente nascosti da una coperta, ma è Marco. Attorno a lui, una distesa di cadaveri. Per fortuna, di quei tragici momenti Manfredi non ricorda nulla. Da allora, il calcio non lo ha più interessato. Contava solo una cosa: era ancora vivo.

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