Lo Stato fa il dietologo e tassa anche i grassi «Combattiamo l’obesità»

La Coldiretti esulta e spera che l’Italia imiti al più presto la Danimarca, dove da ieri è in vigore una sovrattassa sui grassi. Ma il nuovo tributo, che fa lievitare i prezzi di burro, strutto, margarina, merendine, patatine e piatti precotti in vendita a Copenhagen e dintorni, divide gli addetti ai lavori. Vuoi perché rappresenta un intervento dello Stato sulla libertà di scelta del consumatore, e infatti la Confindustria danese non l’ha presa bene. Vuoi perché, come sottolinea la testata online «ilfattoalimentare.it» (che un paio di settimane fa ha anticipato la notizia) potrebbe anche rivelarsi l’ennesimo trucco protezionistico per favorire i prodotti locali.
Comunque sia, e qualunque effetto produrrà nelle dispense e nei frigoriferi dei danesi, per la prima volta al mondo uno Stato ricorre alle teorie nutrizioniste nel tentativo di prendere tre piccioni con una tassa: rimpinguare l’erario, spingere i cittadini ad alimentarsi in modo più sano e, ecco il terzo piccione, limare le spese sanitarie riducendo l’incidenza delle patologie correlate a sovrappeso e obesità. Secondo le autorità di Copenhagen, infatti, il 4 per cento delle morti precoci che si registrano ogni anno nel Paese è in qualche modo legata alla cattiva alimentazione.
Ma che i danesi non rinunceranno a cuor leggero ai loro junk food, tradizionali o meno, preferiti (quei salsiccioni speziati che si comprano anche per strada, le polpette fritte e tutto il necessario per preparare gli «smørrebrød»: burro, salumi, pancetta, paté di fegato...) lo si è visto nei supermercati dove hanno fatto scorta, nei giorni scorsi, di tutti gli alimenti dolci e salati più calorici e psicologicamente, come si dice, confortanti. E lo si poteva molto facilmente prevedere, visto che in danese «fedt» significa «grasso» ma anche «divertente», «positivo», insomma «bello»; e la parola «smørhul», usata nel parlato per indicare un’isola felice, un luogo dove si sta proprio bene, vuol dire letteralmente «buco di burro».
Nel dettaglio, la normativa danese che introduce la tassa sul grasso si innesta sulla legge del 2009 che prevede che i cibi e gli ingredienti «sani» venduti confezionati e sfusi nei negozi, ma anche in bar, chioschi, mense e ristoranti, possano esporre il marchio «keyhole» (la serratura salutista introdotta per la prima volta in Svezia oltre vent’anni fa) solo se rientrano nei limiti di legge per quanto riguarda i grassi saturi. Da oggi chi non vuole apporre sul suo prodotto la serratura paga una tassa di 16 corone (2,15 euro) al chilo di grasso «cattivo». Così, il burro costa il 14% in più e l’olio d’oliva il 7%. Il prezzo di un pacchetto di patatine aumenta dell’equivalente di 9 centesimi di euro in più e mezzo chilo di carne macinata 16 centesimi in più. Per un totale di circa 200 milioni euro che dovrebbero entrare ogni anno nelle casse dello Stato. «Dubito che ciò avrà un impatto positivo sulla salute della popolazione, è solo un’altra tassa. Siamo il primo Paese al mondo che introduce un’imposta simile», ha osservato il portavoce degli industriali danesi.
Ma si diceva della Coldiretti, che subito ha salutato la «fat tax» danese come un ottimo segnale.

La maggiore organizzazione degli agricoltori italiani auspica che anche da noi si prendano iniziative legislative per spingere i consumatori verso un’alimentazione più vicina alla dieta mediterranea e ricorda che il 36% dei ragazzini italiani attorno ai dieci anni, dato record in Europa, è sovrappeso.
E pensare che la Danimarca, con il 10% di obesi sulla popolazione totale, è al di sotto della media europea. Nonostante tutto il burro che consuma.

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