Non si può nemmeno ricorrere al luogo comune del "fatta la legge, trovato l'inganno". Perché non c'è una legge per arginare il fenomeno degli italiani assunti da aziende di Paesi dell'Est per lavorare in Italia. Basta un viaggio lampo per iscriversi a un'agenzia di somministrazione, firmare il contratto e tornare in Italia. Magari con lo stesso impiego di prima, nella regione o nella provincia di provenienza. Però con contributi più bassi, scarsa o inesistente assicurazione sugli infortuni, niente Tfr, tredicesima o quattordicesima.
I regolamenti attuativi del principio della libera circolazione risalgono al 1996, quando l'Ue era un altro mondo, composto da 15 Stati membri. Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia, con il loro diritto del lavoro, sono entrate nel 2004; la Romania nel 2007. E per ora, spiega Cecilia Sanna, docente di diritto dell'Unione Europea alla Statale di Milano, «il diritto dell'Unione si preoccupa dei cittadini di uno Stato membro che vanno a lavorare in un altro Stato membro: per le ipotesi di italiani che operano in Italia ma con contratti di un altro Paese manca una normativa ad hoc. È una situazione complicata perché queste persone si iscrivono volontariamente nelle agenzie che hanno sede all'estero». Almeno in teoria. La regola generale è quella del cosiddetto «distacco transnazionale»: il datore di lavoro «distaccante» mette temporaneamente a disposizione di un'altra azienda «distaccataria» uno o più lavoratori, in modo temporaneo e legato alla prestazione di un determinato servizio. In questo caso la legge europea prevede che tariffe minime salariali, durata del riposo e delle ferie, straordinari, insomma il grosso delle condizioni di lavoro siano quelle applicate dal distaccante. Così il lavoratore, anche italiano, si trova incastrato in un trattamento peggiore rispetto a quello di chi è assunto in Italia.
Sonia Colantonio, della direzione generale dell'ufficio attività investigative del ministero del Lavoro, spiega però che qualcosa si è cercato di fare: la circolare numero 14 del 2015 ha ribadito che le condizioni di lavoro, per i distaccati, devono essere uguali a quelle degli altri che lavorano nello stesso cantiere, guidano gli stessi camion, operano nella stessa clinica. Ma le circolari ministeriali possono restare lettera morta, sono solo «un'indicazione per il nostro personale ispettivo, che se ravvisa differenze di trattamento salariale deve adottare un provvedimento di diffida accertativa, che tutela i lavoratori e vale da titolo esecutivo».
La falla è proprio nella fase del controllo, «difficile con le leggi attuali perché le aziende straniere talvolta presentano documenti non tradotti e quindi poco intellegibili, e perché i lavoratori difficilmente denunciano per timore di perdere il lavoro». Il fenomeno è talmente diffuso che di recente Fillea Cgil, la sigla di categoria degli edili, ha aperto uno sportello a Bucarest: «Si sfruttano varchi e debolezze della disciplina comunitaria», commenta il segretario generale Walter Schiavella. «La circolazione delle persone e dei lavoratori è un principio fondamentale ma il lavoro delle persone non può essere assimilabile a una merce e in questo senso la disciplina comunitaria purtroppo lascia dei margini». Un passo avanti arriverà, secondo Colantonio, dal recepimento entro giugno 2016 di una nuova direttiva. I tecnici del diritto europeo la chiamano «direttiva enforcement » proprio perché dovrebbe servire a rafforzare i controlli.
Si prevede ad esempio che «sia le agenzie di somministrazione sia le imprese estere che fanno distacco in Italia debbano dichiararlo al ministero: in questo modo sapremo dove fare le ispezioni, finora invece questi lavoratori non erano tracciati».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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