Classe 1902, Sayyed Ruhollah Khomeini, è l’uomo a cui dobbiamo -solo nel male- l’Iran di oggi. Costretto prima alla clandestinità e poi all’esilio da quella dinastia Pahlavi che, nonostante il pugno duro e innumerevoli difetti, aveva garantito e assicurato la laicità di una terra leggendaria, sotto perenne minaccia dell’Islam sciita radicale. Un simile asceta perseguitato, negli anni Settanta allucinati e allucinogeni europei, venne visto da fitte schiere di intellettuali radical chic come l’uomo della resistenza all’imperialismo americano, nonchè il nemico numero uno dello scià. E si sa "il nemico del mio nemico è mio amico". Una sorta di Che Guevara persiano in sottana e barba lunga.
Profittando dell’opposizione allo scià montante, questa specie di mélange tra santone e politico apparve come l’antidoto alla decaduta dinastia Pahlavi in fuga. Così, dopo sedici anni di esilio tra Bursa, Najaf e Parigi, l’ayatollah-ormai settantaseienne- ritornava in Iran da liberatore, scendendo dalle scalette di un volo della Air France, sostenuto da un pilota della compagnia come fosse una diva hollywoodiana. Qualcuno, in Europa, si azzardò perfino ad affermare che quel ritorno fosse secondo, in quanto a emozioni, solo al viaggio che portò Lenin in Russia, via dal suo esilio svizzero, su un treno piombato.
Se in quel momento l’isteria da Guerra Fredda poté, per un attimo, abbagliare gli intellettuali europei, il perseverare nel sostegno alla Repubblica Islamica cozzò non solo contro i valori di libertà e democrazia tanto cari all’Europa, ma contro i valori del laicismo, del libero amore e dell’antimilitarismo tanto propagandati dalle sinistre boomer. Le stesse che, canute, oggi pubblicano con nostalgia le foto di ragazze dalle succinte minigonne all’Università di Teheran, i loro abiti variopinti e le loro chiome fluenti a imitare le coetanee a Parigi o Londra. Un Paese giovane e promettente, colto, multisfaccettato, capitato in uno dei peggiori crocevia della storia. Così, sotto la lunga tunica di Khomeini finirono per spegnersi i volti, le chiome, le gambe nude, ma anche libri, musica. Tutte cose per cui la vita è degna di essere vissuta. E con il plauso amaro di chi la minigonna poteva continuare a indossarla e a praticare il libero amore.
Perché questa allucinazione collettiva? Khomeini non scelse Parigi a caso, fu quasi “invitato” dagli intellettuali sedotti dal suo linguaggio. Una retorica suadente, che includeva amore e fratellanza. Ma restava ciò che era: l’uomo di una svolta clericale, in un Paese sedicente libero e laico. Tra i protagonisti della storica sbandata, certamente Michel Focault, che sul Corriere della Sera pubblicava i suoi dispacci da Teheran, simpatizzando per quella spiritualità politica ribelle sconosciuta all’Occidente materialista. In quelle corrispondenze, sebbene i dubbi fossero molti, la “rivoluzione” veniva descritta a guisa di tenzone tra “il sovrano e l’esule inerme, il despota con di fronte l’uomo che si erge a mani nude, acclamate da un popolo”.
L’innamoramento khomeinista lo ha vissuto anche l’Italia. In prima fila a fare da pasdaran dei pasdaran c’era Lotta continua. E se Parigi val bene una messa, per Lc la lotta all’imperialismo americano valeva bene Khomeini. Eppure, la shari’a venne imposta quasi subito (era il 7 luglio del 1980) e la prima legge sull’hijab risale al 7 marzo 1979. Cosa sfuggiva alla comprensione dei libertari europei a proposito di questi provvedimenti mentre si lottava per l’aborto, il divorzio e la pillola? Cosa avrebbero detto se dall’oggi al domani nelle stradelle italiane avesse cominciato a comandare il clero e alle donne fosse stato imposto l’oscuramento di Stato?
Come ricordava Massimo Boffa sul Foglio qualche anno fa, l’innamoramento per Khomeini non riguardava la sinistra ortodossa fedele al paradigma marxista (e che storceva il naso di fronte ai fatti di Teheran), tantomeno quella socialdemocratica: era quella sedicente terzomondista che si era lasciata ammaliare dalla barbona dell’ayatollah. Khomeini e i mullah fondevano assieme l’odio antimperialista contro gli Stati Uniti, la battaglia palestinese e una certa speranza che la rivoluzione potesse segnare un punto a favore dell’Unione Sovietica nel pallottoliere della Guerra Fredda. Pentimenti pochi. “Eravamo comunisti”, fanno spallucce numerosi intellettuali imbiancati, oggi, nel guardare la deriva nullista e sfiancante del regime.
Ma la storia, tuttavia, non ha scolari. Le conventicole della far left europea non hanno perso il vizio di usare l’Islam politico come spada contro Washington, l’imperialismo, la globalizzazione. Soprassedendo (o tacendo) perfino sui diritti delle donne. L’islamismo, oggi, possiede una certa fascinazione nell’universo terzomondista, che lo brandisce come antidoto ai mali dell’Occidente. Le sinistre radicali, in particolar modo, hanno abdicato all’ateismo di stampo marxiano, sposando spesso nei dibattiti pubblici la causa dell’Islam politico, nel quale viene individuato un nuovo proletariato di oppressi che promette la rivoluzione.
Perfino l’Iran di oggi è un esempio per molti, giù da noi. Per Khamenei e i suoi simpatizzano in tanti: basta guardare i social per capirlo. Sovente, sono gli stessi che hanno pianto Mahsa Amini. Che riposi in pace.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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