Da Odessa
I droni sorvolano la folla nell'aria torrida, mentre i cecchini scrutano ogni angolo della piazza dai tetti dei palazzi circostanti. La spianata davanti alla Casa dei Sindacati di Odessa sembra un teatro di guerra anche tre anni dopo la strage che l'ha resa tristemente famosa. Qui il 2 maggio del 2014 vennero trucidati 48 attivisti filorussi, in uno dei più violenti pogrom che la storia recente dell'Europa ricordi. Decine di militanti autonomisti incalzati dai neonazi pro-Maidan si rifugiarono nell'edificio in cerca di salvezza: vennero bruciati vivi, bastonati a morte e presi a fucilate dagli assedianti. Sotto gli occhi delle telecamere di mezzo mondo, il linciaggio si consumò in diretta tv senza che le autorità cittadine facessero nulla per impedire quell'orrore.
L'odio per i filorussi, che allora come adesso guardano a Vladimir Putin come al grande protettore contro il centralismo nazionalista imposto da Kiev, non è mai sopito. Appena l'anno scorso le formazioni dell'estrema destra ucraina vennero a bruciare, in segno di disprezzo, i fiori lasciati dalle madri delle vittime e ancora adesso non esitano a presentarsi alla commemorazione per insultare i morti. La polizia fa poco o nulla per evitare queste tensioni: gli uomini delle forze speciali hanno sequestrato all'interno di un bus le madri dei ragazzi uccisi, per impedire loro di presentarsi in tempo all'appuntamento. Ufficialmente per esigenze di ordine pubblico, in realtà per sminuire l'importanza della cerimonia.
Come le madri, anche i giudici e i legali delle vittime sono costantemente intimiditi, minacciati sui social network e perfino nelle aule dei tribunali. È il caso dell'avvocato Andrey Karkischenko, finito più volte nel mirino dei nazionalisti per aver assunto la difesa di molte famiglie russofone. A oggi, le autorità non hanno saputo porre freno a questo tipo di intimidazioni. I processi per il massacro del 2014, del resto, non procedono affatto. Dopo tre anni di indagini non c'è nemmeno un imputato. Non un arrestato, se si escludono i vertici di polizia e vigili del fuoco, accusati di essere intervenuti con colpevole ritardo nel fermare le violenze. Il ministero dell'Interno chiede più tempo e più risorse, impegnandosi a «imparare da quell'episodio perché non si ripeta più nulla di simile». Chiede esperti e periti alla Ue ma la verità è che chi prova a squarciare il velo di omertà su quella strage si ritrova nella lista nera dei servizi di sicurezza.
Così è successo al giornalista indipendente Alexander Todorov, fra i testimoni oculari del massacro. Nel giorno dell'ultimo anniversario, la sua abitazione è stata perquisita dagli uomini dell'Sbu, il servizio segreto per antiterrorismo e controspionaggio. Le sue ricerche preoccupano il potere al punto da spingere gli 007 a vietargli l'espatrio e a sequestrargli il disco rigido del computer. Da anni, infatti, Todorov indaga le torbide connessioni fra gli estremisti di destra accusati delle violenze di tre anni fa e gli uomini legati ai partiti politici saliti al governo dopo la rivolta di Maidan. «L'attuale presidente del parlamento Andrey Parubij - spiega al Giornale - venne ritratto poco prima del 2 maggio mentre consegnava, in veste di segretario del Consiglio nazionale di sicurezza e difesa, giubbotti antiproiettile e altro materiale militare a uomini fotografati mentre sparavano ad altezza d'uomo sulla spianata di fronte alla Casa dei Sindacati».
Un altro episodio controverso, fra i tanti, è quello che vede protagonista Vladimir Nemirovsky, vicino all'ex premier Arsenij Jaceniuk e che all'epoca dei fatti era governatore della regione di Odessa. Fece discutere, allora, la decisione, di spostare centinaia di attivisti filorussi dalla piazza di Kulikovo, esponendo i pochi militanti rimasti alla furia omicida dei nazionalisti. «Chiunque vada contro il governo finisce direttamente in prigione: posso dire la verità solo su internet o parlando con i giornalisti stranieri»: a dirlo non è Todorov ma il suo collega Ruslan Kotsaba, finito in carcere per aver incitato i giovani ucraini a disertare il servizio di leva, reso obbligatorio per combattere la guerra del Donbass.
In un Paese dove il nazionalismo antirusso viene esasperato innanzitutto dal governo centrale, le tensioni interetniche presenti ad Odessa si riverberano dappertutto. Le autorità promuovono raccolte di fondi per sostenere l'esercito impegnato a combattere le milizie delle repubbliche di Donetsk e Lugansk, mentre le formazioni estremiste di destra continuano a reclutare nuovi adepti. Nel giorno del terzo anniversario della strage, i battaglioni di Pravy Sektor sfilano a pochi metri dalla Casa dei Sindacati. Sulle magliette e sulle bandiere portano insegne tipiche della simbologia nazista che condividono con i reparti speciali dell'esercito. Gli uomini di «Settore destro» con lo Schwarze Sonne di Heinrich Himmler, i soldati del battaglione Azov con la Wolfsangel della divisione SS «Das Reich». Un lessico hitleriano che viene riesumato in nome del comunismo filorusso.
E che non disdegna, di tanto in tanto, di accostare la camicia nera dei fascisti al nastro blu e oro dell'Unione Europea. Il simbolo di un Occidente che nel 2014 non esitò a salutare il colpo di Stato di Maidan come una rivoluzione colorata, pacifica e democratica.
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