Credo di essere stato il primo ad aver qualificato Silvio Berlusconi come «cattolico popolare». Correva l’anno 2000, egli si preparava alle elezioni dell’anno successivo, transitò dal Meeting di Rimini e condivise con alcuni amici una sera a cena. Certo, non erano tempi di scandali da «Inquisizione spagnola », direbbe Giuliano Ferrara. Ma allora Berlusconi era già divorziato. E risposato da un pezzo con una bella signora del varietà. Mi permisi qualificarlo così proprio perché tale è Berlusconi: uomo animato di positività e, soprattutto, di italianità, tipiche del cattolicesimo. Non mi spingo più in là. Non per pudore bigotto, ma perché bigotti a me paiono coloro che non vogliono distinguere la sostanza del fenomeno dalla maschera bieca e manomissoria che ne hanno fatto in questi giorni gli spiriti della giustizia e della morale. D’altra parte,i cattolici che hanno votato Berlusconi non lo hanno fatto perché egli fosse un esemplare di credente e di moralità osservante.L’hanno ( l’abbiamo)votato per le sue doti di capo politico, per il suo decisionismo, per la sua caratura di personaggio non legato all’establishment con una mano sulla retorica della Costituzione antifascista, l’altra sul portafogli degli italiani. L’abbiamo votato per dare una sterzata al Paese. Ora, come ha notato l’editorialista di Avvenire Assuntina Morresi, anche se un giorno si venisse a sapere che Zapatero ha condotto una vita integerrima sul piano della morale cattolica, ciò non scalfirebbe di uno iota la valutazione negativa che della politica zapateriana dà un cattolico. Paolo VI ha definito la politica «la più alta forma di carità ». E sono due i fattori in base ai quali il cattolico giudica della «carità» o meno garantita da un’azione politica:la libertas ecclesiae e il bene comune. Rientrano in questo ambito, sia la difesa del diritto della Chiesa a intervenire nel dibattito pubblico. Sia il riconoscimento che i cosiddetti «valori non negoziabili » (come la difesa della vita) rappresentano un contributo – non un «attentato» - al bene comune. In entrambi i casi, basterebbe il semplice atto della firma apposta al decreto che ha tentato di salvare Eluana Englaro a dare a Silvio Berlusconi una «patente » di cattolicità molto più marcata di quella del suo «adulto» predecessore Romano Prodi. Dico di più. Dico che nonostante il caso Ruby, un cattolico può (e deve, secondo me) continuare a preferire la politica «berlusconiana » per il semplice fatto che, ad oggi, gli atti di questo governo sono improntati da due principi, sacri per i cattolici e pressoché elusi dall’opposizione giustizialista: la persona precede lo Stato (libertà) e i corpi intermedi sono i primi protagonisti del bene comune ( sussidiarietà). Che poi il nostro premier si conduca in una vita da «peccatore » - come lo siamo tutti, sia pure in diverse gradazioni - ciò meriterebbe una privata correzione, non la pubblica sconfessione (come è lungi da fare la Chiesa) di una certa politica.
Tanto più se la richiesta di «sconfessione politica» viene da una parte che legittima un’immoralità molto più grave e pericolosa (per la libertà e il bene comune del popolo) di quella rinfacciata al presidente del Consiglio. L’immoralità - come ha scritto l’uomo di sinistra Luca Ricolfi - di «un’azione giudiziaria già di per sé fuori misura ».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.