Elisabetta Pisa
Exit e Dignitas devono essere sottoposte al controllo dello Stato. Secondo la Commissione nazionale di etica le associazioni di aiuto al suicidio, che in Svizzera si occupano di prestare assistenza a chi vuole farla finita, devono essere più controllate. Cè, difatti, chi teme che non solo i malati terminali, ma anche persone sane chiedano assistenza col rischio che di questo passo si arrivi ai suicidi collettivi.
Per la Commissione nazionale di etica lattività di Exit e Dignitas va inserita in un quadro giuridico da definire meglio rispetto a quello attuale. Lorganismo dei 22 «saggi», chiamato a esprimersi su questioni etiche, dopo tre anni di lavoro ha concluso lo scorso aprile un rapporto sul suicidio assistito, da cui sono state tratte 12 tesi, in pratica le raccomandazioni cui farà riferimento il legislatore. Una serie di indicazioni tratte da un dossier di sessanta pagine, che ora è in fase di traduzione nelle diverse lingue nazionali e che, una volta reso pubblico, è destinato a riaccendere le discussioni sulla dolce morte. Il dibattito a livello politico è fermo al 2001. Una stasi che si scontra con le esigenze della società e con i problemi pratici di una nazione che oscilla tra autodeterminazione e tutela della vita a tutti i costi. Per la Commissione nazionale di etica è necessario un intervento dello Stato che delimiti più precisamente i confini entro cui Exit e Dignitas agiscono. Il suicidio assistito non è punito dalla legge nella Confederazione, purché non venga praticato per motivi di natura egoistica, come ad esempio beneficiare delleredità del malato. Questa è lunica limitazione fissata dallarticolo 115 del codice penale elvetico. Insomma il legislatore ha lasciato ampi spazi di manovra. Le due associazioni private si sono, quindi, auto-regolate, stabilendo una determinata procedura da seguire. La richiesta viene soddisfatta solo se viene accertata la piena capacità di intendere e di volere di chi la presenta. Secondo il suo statuto, Exit procura la sostanza letale ai malati terminali, a chi manifesti uno stabile desiderio di morire, e a chi ha una qualità di vita scadente, provocata ad esempio da dolori o stati di sofferenza cronici. Accertate queste condizioni, lassociazione fornisce un barbiturico da sciogliere in acqua, che provoca la dolce morte nel giro di una trentina di minuti dopo che il paziente lha assunto. Criteri che non sono giudicati abbastanza rigidi nella loro applicazione.
«Niente impedisce dice Carlo Foppa, filosofo, etico clinico al Centro ospedaliero di Losanna, membro della Commissione nazionale di etica che queste regole cambino e che un domani anche le persone perfettamente sane possano essere assistite. Mesi fa la tv della Svizzera romanda ha mandato in onda un documentario dove veniva presentato il caso di un congiunto di un malato terminale che domandava anchegli lassistenza pur essendo perfettamente in salute. In tal senso Exit e Dignitas hanno un potere discrezionale molto ampio». È vero però che ogni volta che le associazioni di assistenza al suicidio intervengono, scatta linchiesta della magistratura su quella che viene considerata una morte violenta. Un controllo da parte dello Stato insufficiente? «Non sappiamo se tutti i casi vengono denunciati afferma il filosofo . Maggiori verifiche sono indispensabili soprattutto per capire quale sia la reale diffusione del fenomeno. Secondo ricerche pubblicate su riviste autorevoli, oltre il 50% dei decessi in Svizzera fa seguito a una decisione precedentemente presa». Nellagosto del 2003 la rivista medica The Lancet ha pubblicato uno studio comparativo, che ha messo in evidenza come la dolce morte nella Confederazione sia sempre più praticata. Nel 52 per cento dei decessi i medici sono intervenuti con varie forme di eutanasia. Cifre che però sfuggono alle statistiche ufficiali e che dimostrano come la dolce morte sia una realtà, anche se la legge parla solo di suicidio assistito.
Per contro, anche se Exit e Dignitas hanno un ampio margine di manovra, in alcuni casi però vengono ostacolate nel loro lavoro: talvolta viene vietato loro di prestare assistenza a malati ricoverati in ospedali o ospitati in case per anziani. Le direzioni delle strutture possono, difatti, proibire la procedura.
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