Sanità e statali sono intoccabili. E lo Stato si svena per le pensioni

Ecco perché i tagli pubblici sono un miraggio

Sanità e statali sono intoccabili. E lo Stato si svena per le pensioni

La prima commissione è di 35 anni fa: si chiamava Commissione tecnica per la spesa pubblica e nel 1981, tra squilli di tromba e rulli di tamburi, fu incaricata di mettere un freno all'incontrollata prodigalità dello Stato italiano. Nel 2007 fu sostituita dalla Commissione tecnica per la finanza pubblica, che doveva effettuare, secondo le parole del provvedimento di istituzione, «un riesame sistematico dei programmi di spesa delle amministrazioni centrali, volto a individuare le criticità, le operazioni di riallocazione delle risorse e le strategie di miglioramento dei risultati ottenibili con le risorse stanziate sul piano della qualità e dell'economicità dell'azione amministrativa».

Parole complicate, risultati scarsi. Così, negli ultimi anni si è tentata la strada dell'uomo forte, del supercommissario con il compito di usare l'accetta o, come si dice adesso «di procedere a un'approfondita spending review». Uno dopo l'altro hanno fallito tutti: Piero Giarda, Enrico Bondi (affiancato da Giuliano Amato per i costi delle politica e Francesco Giavazzi per i sussidi alle imprese), Carlo Cottarelli. L'ultimo a gettare la spugna, poche settimane fa, è stato Roberto Perotti, che ha masticato amaro: «La spending review non è tra le priorità del governo».

RISULTATI SCARSI

Lei, intanto, la spesa, continua a lievitare, incurante di tanta attenzione. Intendiamoci: i cordoni della borsa sono stati stretti, il tasso di crescita degli esborsi si è sostanzialmente ridotto, qualche spreco è stato eliminato. Eppure i risultati rimangono costantemente al di sotto delle aspettative. Sembra impossibile guardando l'ammontare complessivo delle uscite statali: 828 miliardi di euro nel 2015, ben oltre il 50% del prodotto interno lordo. Possibile che in questo mare di soldi non si trovi modo di disboscare in profondità la mala pianta degli sperperi? Eppure pare un'impresa titanica. Colpa della scarsa volontà politica, dei molti cascami clientelari, della resistenza accanita della burocrazia, attaccata con le unghie con i denti ai privilegi (vedi anche l'altro articolo in pagina). Ma anche, come risulta dai dati elaborati per il Giornale dalla Cgia di Mestre e presentati in queste pagine, del fatto che, così come stanno le cose, gran parte della spesa pubblica è praticamente intoccabile. Con la conseguenza inevitabile che menare fendenti profondi e risolutivi è impossibile e dunque bisogna lavorare non di scimitarra ma di fioretto. Come dice Paolo Zabeo, coordinatore dell'Ufficio studi Cgia: «Le operazioni di spending review dovranno sempre più riguardare il "micro" e ogni singola realtà in modo da individuare le vere voci di spesa poco efficienti».

Un buon esempio di «rigidità» delle uscite è proprio il comparto più importante: quello delle pensioni. L'esborso sostenuto annualmente è da record mondiale: 259 miliardi, ovvero il 31,3% della spesa complessiva dello Stato. In pratica su tre euro che escono dalle casse pubbliche, uno viene versato agli anziani. Se si guarda a un confronto internazionale il nostro Paese spende per gli assegni di vecchiaia il 16,8% del Pil, contro una media nell'area euro del 12,7, l'11 della Germania e il 15,3 della Francia, tra i grandi il Paese che ci tallona più da vicino. In rapporto alla ricchezza nazionale la spesa in grigio è andata sempre crescendo. Un tempo a pesare era la generosità nel concedere gli assegni di quiescenza, dal 2007 in poi l'aumento nominale delle uscite pensionistiche è stato considerevolmente frenato, ma a contrarsi è stato il pil, il denominatore del rapporto, che ha dunque assunto un valore più alto. Il peggio è che la spesa dovrebbe aumentare ancora: il trend demografico vede gli esborsi salire fino a 280 miliardi nel 2019, mentre il peso sul pil dipenderà dall'andamento della crescita dell'economia. Tagliare le pensioni è giuridicamente difficile («i diritti acquisiti...») e politicamente impossibile.

LA CUCCAGNA E GLI SPRECHI

Gli unici interventi ipotizzati, come quello di una «trattenuta extra» sulle pensioni d'oro ottenute con il metodo retributivo (che non corrispondono cioè ai contributi versati) hanno più a che fare con principi di equità che con l'esigenza di recuperare risorse finanziarie. Così come nessun intervento concreto è stato ipotizzato per i circa 80mila pensionati che, negli anni della cuccagna, hanno smesso di lavorare tra i 35 e i 39 anni. Continueranno a ricevere un piccolo o grande assegno per tutto il resto della loro, si spera lunga, vita.

Altra spesa inattaccabile è quella degli interessi sul debito. Nel 2015 ci sono costati oltre 68 miliardi e sono il prezzo che paghiamo oggi per gli sprechi del passato, a cominciare da quelli dei magnifici anni Ottanta, periodo in cui bastarono solo due lustri per raddoppiare il debito nazionale (dal 60 al 120% circa del prodotto interno). Se lo Stato italiano vuole continuare a raccogliere finanziamenti (e non può fare altro) deve concedere l'interesse richiesto dai mercati. E, anzi, il periodo è più che favorevole: le politiche delle banche centrali hanno abbassato i tassi a livelli storicamente bassissimi, riducendo dunque l'esborso a carico delle finanze pubbliche.

COSTI SOTTO LA MEDIA

Il problema, però, è che se si fanno due conti e si toglie dal bilancio dello Stato quanto versiamo per pensioni e interessi (come abbiamo visto praticamente intagliabili), si nota subito una particolarità. La spesa pubblica italiana è tra le più basse d'Europa (vedi le tabelle al centro della pagina): il 29,7% del prodotto interno. Siamo sotto la media dell'area euro, tutti i grandi Paesi spendono molto più di noi. Che cosa vuol dire? Molto semplicemente che il grasso in eccesso è molto meno di quello che si pensa. Anche tenendo conto di qualche altro fattore. I costi per la Sanità, per esempio: dal 2010 i risparmi ci sono stati e l'incidenza sul pil è diminuita fino a portarsi su livelli che sono in linea con la media europea. Il valore assoluto è stato pari a 212 miliardi nel 2015, per quest'anno si parla di 213 miliardi, cifra che dovrebbe confermarsi anche per il 2017. In pratica siamo fermi. Soprattutto tenendo conto che la popolazione italiana anno dopo anno diventa più vecchia e con pazienti più anziani la spesa tendenziale tende implacabilmente a salire. Conclusione: qualche recupero di efficienza si potrà ottenere, ma non aspettiamoci miracoli. Altra voce pesante, nel bilancio dell'impresa Italia, è quella relativa ai dipendenti pubblici. Ma anche in questo caso chi spera di potere passare con la falciatrice si illude. Negli ultimi anni, grazie alla riduzione degli statali e al blocco dei contratti, qualche risparmio c'è stato (due miliardi solo nel 2015). Ma l'esame dei numeri porta a sfatare il mito che in Italia gli statali siano un esercito in cui si possa affondare il bisturi: in tutto sono 3,2 milioni, vale a dire il 14,7% degli occupati, mentre in Francia sono 21,9% e nella liberista Gran Bretagna il 17,7%. Tutt'altro discorso è il fatto che sono organizzati e distribuiti male a livello territoriale: sono, per esempio, 31 ogni mille abitanti in Lombardia e Veneto, ma 55, sempre ogni mille abitanti, in Trentino, poco meno in Sicilia e Calabria. Si potrebbe trasferirli, ma la mobilità complessiva nel 2014 ha riguardato solo un millesimo dei lavoratori. Tenendo conto solo delle voci citate sin qui (pensioni, interessi, sanità e stipendi) si scopre che oltre il 72% della spesa è di fatto difficilmente comprimibile. Il che non vuole dire, ovviamente, che tagliare sia impossibile, ma che lo spazio di manovra è più scarso di quanto si pensi.

CONTA LA QUALITÀ

«Quello dei lavoratori pubblici è un buon esempio del fatto che bisogna guardare non solo la quantità ma anche la qualità della spesa», spiega Giovanni Valotti, docente di management pubblico alla Bocconi e presidente di A2A. «Negli altri Paesi quando si parla di spending review, si intende, sì, una riduzione ma soprattutto una riqualificazione degli esborsi. Noi, alle prese con il debito pubblico, pensiamo solo ai tagli». La priorità, secondo Valotti, sarebbe quella di distinguere le spese che non producono servizi dalle altre.

«Il vero buco della spending review e delle norme sulle trasparenza degli uffici pubblici è che in Italia non si riesce mai a collegare la spesa con i risultati ottenuti. All'estero gli indicatori per valutare un ufficio pubblico sono tre: servizi offerti, efficienza della gestione e obiettivi concreti raggiunti. In Italia questo tipo di valutazione non si fa mai».

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