La leggenda di Serena Williams iniziò con una sconfitta

Era l'ottobre del 1995, primo turno di qualificazioni del torneo di Quebec City. Serena aveva soltanto 14 anni: "Ho giocato come una dilettante", disse.

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C'è un motivo se il padre, Richard Williams, ha deciso di trasferire in blocco tutta la famiglia dal placido Michigan a Compton, incasinato sobborgo di Los Angeles. Lì esci per strada e rischi che la giornata si complichi immediatamente, tra tossici, sparatorie e altre sacche di violenza diffusa. Ma se sei piccola e riesci a cavartela da quelle parti, significa che puoi andare senza paura in giro per il mondo. Per fare quello che Richard ha programmato per lei, che si chiama Serena, e per la sorella maggiore Venus: diventare voraci mantidi del tennis.

Certo, a vederla oggi che è un fresco giorno dell'ottobre 1995, non si direbbe che Serena Williams abbia la stoffa e il carattere pretesi dall'ambizione di dominio. Segue da tempo la sorella più grande, ammirandone la disinvoltura, ma avverte che quel sentimento si sta già modificando. Forse Serena non è davvero felice per i successi di Venus. Forse la invidia, e vuole diventare migliore di lei. E viceversa, naturalmente, anche se c'è una feroce volontà di rivalsa che le accomuna, più che metterle sportivamente contro: dimostrare alle tenniste bianche che loro due possono farle a pezzi.

Ma, tornando a quel giorno autunnale, la quattordicenne Serena pare alquanto tesa. Si tratta del primo turno di qualificazione del torneo di Quebec City, l'incipit di una carriera che la condurrà a vincere 73 titoli del WTA, di cui 23 del Grande Slam. Ma, tenera e precoce, lei ancora non può saperlo. Da lì ad un paio di anni comincerà prima ad intravedersi, poi a spuntare fuori con attitudine ferale, il power tennis che diventerà marchio di fabbrica di entrambe le sorelle. Colpi dal fondo come razzi imbizzarriti, ai quali è impossibile opporsi, perché niente di simile è mai stato visto prima. Difendersi non è più necessario, alle Williams, quando possono chiudere il discorso nel giro di tre scambi spinti forsennatamente.

L'avversaria di quel giorno, per Serena, è la connazionale Annie Miller, diciott'anni. Tutt'intorno è il vuoto. Il pubblico non c'è e le uniche forme di vita che tappezzano il centro sportivo - pare davvero un semplice campo di allenamento - sono quelle stipate a rimpinzarsi in un chiosco che serve cibo caldo, a qualche metro dal campo. Serena dunque non può soffrire di pressioni particolari, ma è piccola, insicura e in definitiva ancora non pronta per quel salto. Di fatto la Miller la riduce in brandelli: 6-1/6-1 a subito a casa.

Uscendo dal campo però la minore delle Williams lascia già capire quale sia le mentalità che gli hanno inculcato: "Non ho giocato come so, ho giocato come una dilettante", dice, incapace di ritrarre la sua delusione. Ha soltanto bisogno di tempo. Due anni dopo, al torneo di Chicago, la gente si accorgerà di cosa è capace quando farà fuori la numero sette e la numero quattro del mondo, vale a dire Mary Pierce e Monica Seles, per poi fermarsi soltanto in semifinale, arrendendosi a Lindsey Davenport.

Ancora due anni - è scoccato il 1999 - e vincerà il suo primo torneo del Grande Slam, lo US Open, sconfiggendo un mostro sacro come Martina Hingis.

In quel lontano giorno di ottobre però deve deporre le armi: come è successo a molte enormi campionesse, l'inizio è traumatico. Quel che conta è il risultato finale.

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