"Testimonial amico dei terroristi" Amnesty International sotto accusa

Scelto come simbolo un ex di Guantanamo ammiratore del mullah Omar. Allontanati i funzionari dell’organizzazione che hanno denunciato il caso

"Testimonial amico dei terroristi" 
Amnesty International sotto accusa

Amnesty International usa come «testimonial» un ex detenuto di Guantanamo, per di più filo-talebano. Lo porta addirittura a Downing Street, residenza del premiero britannico, e in giro per l’Europa a chiedere la chiusura di X Ray, campo di detenzione per i terroristi di Al Qaida. Chi protesta, all’interno dell’organizzazione, è sospeso. Un italiano, Claudio Cordone, segretario ad interim di Amnesty, difende la scelta di far diventare il talebano britannico «campione» dei diritti umani.

L’imbarazzante faccenda esplode agli inizi di febbraio quando Gita Sahgal, dirigente internazionale di Amnesty, fa trapelare sul Sunday Times il suo sfogo rimasto senza risposta da parte dei vertici dell’organizzazione. Per l’esperta di estremismo, la collaborazione della più nota associazione al mondo sui diritti umani con Moazzam Begg, ex detenuto di Guantanamo, è un «fondamentale danno» per l’immagine di Amnesty. «La campagna costituisce una minaccia agli stessi diritti umani - scrive Sahgal il 30 gennaio in un messaggio di posta elettronica ai suoi capi - Apparire assieme al più famoso sostenitore britannico dei talebani, trattandolo come un difensore dei diritti umani, è un grosso errore». Moazzam Begg, 42 anni, nato a Birmingham, è stato rinchiuso tre anni a Guantanamo. Nel 1993 frequentò un campo di addestramento in Afghanistan. Poi si è trasferito con la famiglia a Kabul, nel 2001, quando gli studenti guerrieri avevano conquistato gran parte del Paese. Nelle sue memorie ha scritto: «Credo che i talebani abbiano fatto alcuni progressi nel campo della giustizia sociale riportando all’attenzione puri e antichi valori islamici che erano dimenticati». In seguito ha rettificato soltanto in parte l’ammirazione per mullah Omar e compagnia.

È stato liberato nel 2005, perché non si sarebbe mescolato con Al Qaida. Dal giorno del suo rientro in patria, però, si è mobilitato per la chiusura del carcere a Cuba diventando il leader carismatico di Cageprisoner: una discussa associazione che prende le difese di chiunque si trovi a Guantanamo compresi terroristi incalliti e rei confessi come Khalid Sheikh Mohammed, lo stratega dall’11 settembre. Per non parlare di Abu Hamza, il predicatore con l’uncino, che si oppone all’estradizione dall’Inghilterra agli Stati Uniti. Oppure la scienziata di origini pachistane, Aafia Siddiqui, recentemente condannata per aver cercato di ammazzare degli agenti americani che la interrogavano. Non soltanto: l’ex di Guantanamo difende a spada tratta pure Anwar Al Awlaki, imam americano di origini arabe nascosto nello Yemen, che avrebbe ispirato i nuovi complotti di Al Qaida come il fallito attentato di Natale sul volo di Detroit.
Amnesty International ha scelto Begg come martire vivente, per spiegare al mondo e ai suoi governanti gli orrori di Guantanamo e quanto cattivi sono gli americani. Lo scorso mese l’ha portato in delegazione a Downing street per consegnare una lettera appello al premier britannico Gordon Brown. Per non parlare dei giri promozionali europei a spese di Amnesty. Il Times di Londra scrive che a Downing street era accompagnato da Kate Allen, responsabile della sezione inglese di Amnesty dal 2000. Quest’ultima è notoriamente di sinistra, fidanzata per 20 anni con Ken Livingstone, l’ex sindaco rosso di Londra. Sahgal, che ha denunciato il connubio con il talebano, è stata sospesa. Il segretario ad interim di Amnesty, l’italiano Claudio Cordone, ha ribadito che «il nostro lavoro con Moazzam Begg è focalizzato solo sulle violazioni dei diritti umani commesse a Guantanamo e sulla necessità per il governo americano di chiudere (il carcere) e rilasciare o processare i detenuti».
Il muro in difesa del talebano, innalzato da Amnesty, comincia a registrare crepe. Sulla collaborazione con l’ex di Guantanamo ha sparato a zero anche Sam Zarifi, direttore per l’Asia e il Pacifico dell’organizzazione. «Alcune campagne di Amnesty… non distinguono sufficientemente fra i diritti dei detenuti a non venir torturati o rinchiusi in maniera arbitraria e la validità dei loro punti di vista», ha scritto Zarifi ai suoi collaboratori il 10 febbraio.

In pratica Amnesty avrebbe oltrepassato la sottile linea rossa che separa la difesa dei diritti umani, anche per i terroristi, dall’apparire compiacenti o collusi con le loro assurde idee. L’alto dirigente di Amnesty non ha dubbi: «Dobbiamo ammettere l’errore e fare in modo che non si ripeta di nuovo».
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