Un tetto al numero di immigrati nei quartieri

Un film già visto. Una provocazione che cade come un cerino acceso in un deposito di benzina, una reazione spropositata, una controreazione devastante, le reciproche accuse tra le parti politiche. Con le dovute proporzioni e le ovvie peculiarità, via Padova a Milano è come Rosarno, come Castelvolturno, come Chinatown: tensioni etniche che sfociano in guerriglia, giuste rimostranze delle vittime di una situazione insostenibile, indignazione, strumentalizzazione da parte delle opposizioni, promesse da parte della maggioranza. E poi?
Detto che è verissimo che l’Italia sconta una politica troppo permissiva, frutto della cultura della sinistra e di certa parte del mondo cattolico, e che questo governo ha (finalmente) fatto molto sul piano del contrasto all’immigrazione clandestina, bisognerà pur affrontare l’altro lato della medaglia. E cioè come metter mano alle dieci-cento-mille casbah che già ci ritroviamo andando oltre i proclami minacciosi quanto inconcludenti («Li cacceremo casa per casa») e lo slogan-piagnisteo: «Più integrazione, più integrazione». Perché ci sia integrazione bisogna che prima si verifichino due condizioni chiave: legalità e sostenibilità.
La prima chiama in causa certamente le forze dell’ordine. Ma prima ancora i magistrati, in buona parte sinora più impegnati a trovare giustificazioni al «povero immigrato delinquente» o a disapplicare le leggi sul reato di clandestinità e sulle espulsioni, che a far sì che solo chi ne ha diritto possa insediarsi nelle nostre città. Se non si taglia il nodo tra clandestini e stranieri regolari, le rivolte stile via Padova sono fatalmente destinate a moltiplicarsi. Se viceversa si comincia a cacciare chi va cacciato e a punire duramente, come prevede la legge, i «fiancheggiatori», vale a dire chi sfrutta i clandestini con il lavoro o l’affitto in nero, si pone la prima pietra della mitica integrazione. Certo, così non si finisce sui giornali, non si ha un’oncia della popolarità che regala una bella inchiesta su Berlusconi o su Bertolaso. E si capisce che stiamo chiedendo loro un sacrificio sovrumano. Ma di qui non si scappa: o le toghe collaborano, oppure continueremo a vedere il film di cui sopra all’infinito.
Ma la legalità non basta. Bisogna evitare l’effetto ghetto. Inutile che ce la raccontiamo: una comunità è in grado di sopportare e accogliere elementi estranei fino a un certo punto. Oltre questa quota X, da una parte c’è il rigetto, dall’altra la spinta a farsi assimilare (già faticosa) lascia il posto alla logica dei clan. È, sempre facendo le dovute proporzioni, quel che accade nella scuola. Se in una classe di trenta alunni vengono inseriti quattro o cinque stranieri, ben presto imparano l’italiano, fanno amicizia con gli altri, seguono le lezioni e tutto procede per il meglio. Se ne vengono immessi otto o nove, le cose si fanno assai più complicate. Ma se il numero aumenta, il fallimento è certo: i nuovi arrivati fanno gruppo tra loro, continuano a parlare la propria (o le proprie) lingua, la didattica va a quel paese, la convivenza pure.
Per fronteggiare il problema, il ministro Mariastella Gelmini ha pensato di piantare un paletto: in ogni classe non si potrà avere più del trenta per cento di studenti provenienti da altre nazioni. Una norma di puro buonsenso che, naturalmente, ha provocato alte grida di sdegno da parte della sinistra chic, sempre pronta ad accusare gli altri di razzismo al riparo dei propri palazzi eleganti non lambiti dall’immigrazione e delle scuole private dove non disdegna di iscrivere i propri rampolli. Immagino dunque gli improperi che mi tirerò addosso con la seguente proposta: perché non applicare la stessa misura anche ai quartieri? Perché non imporre un tetto al numero di stranieri che può risiedere in una determinata zona?
Certo, non mi sfuggono le difficoltà pratiche. Ed è ovvio che non penso a una quota rigida. Ma è così folle stabilire un principio che, in fondo, è esattamente quello che chiedono gli esasperati abitanti italiani di tutte le vie Padova del nostro Paese? Ed è proprio impossibile arrivare a farlo rispettare attraverso un’oculata politica di distribuzione degli alloggi popolari e una migliore sorveglianza del territorio? Forse no. Soprattutto se, per cooperare, le amministrazioni comunali tireranno fuori dal cassetto quei vigili di quartiere che di norma ci fanno vedere (da lontano) solo alla vigilia delle elezioni.
Una provocazione? Prendetela come volete. Ma il problema va affrontato. E forse non è male tenere presente che in quei luoghi freddi e un po’ leghisti dove, magari artigianalmente, questi accorgimenti già si applicano c’è il miglior indice di integrazione degli stranieri.

Non lo dico io. Lo dicono le statistiche del Cnel. Lo dicono gli studi, non solo nazionali, che individuano nel Nord Est il posto in cui gli immigrati vivono meglio. E con loro anche gli italiani. Vale la pena di rifletterci.

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