Sulle pagine culturali della stampa nazionale ha avuto di recente un guizzo di memoria e dinteresse una rivista, emanazione dun intellettuale e ministro fascista che operò negli anni 1940 e successivi: Giuseppe Bottai e la rivista Primato che ebbe come collaboratori molti nomi, quasi tutti del futuro comunismo italiano. Fu unoperazione valida e di spessore, quella di Bottai? E quali le sue motivazioni?
Per mia esperienza diretta, propendo per una risposta motivata e positiva. Bottai, che visse dal 1895 al 1959, ministro delle Corporazioni, architrave sociale del fascismo, in quegli anni coltivò latmosfera culturale dellimminente dopoguerra dando la parola, e perciò chiamandola a collaborare, a una schiera dei più agguerriti giovani della cultura e dellarte del momento. Fra questi erano obiettivamente molti rappresentanti dellintellighentia che approderà nel Pci. Ciò costituisce un dato di fatto. È interessante scoprirne i percorsi, lispirazione e le esperienze che furono cospicue e significative.
Ebbi occasione di parlarne nel 1948 direttamente con il capo del Partito comunista e con un terzo interlocutore dalto livello e delevato calibro della curia romana, sotto Papa Pio XII, il «crociato», Eugenio Pacelli. Si chiamava don Giuseppe De Luca, sacerdote coltissimo che Togliatti frequentò dopo averlo conosciuto a Roma in casa di Franco Rodano, fondatore della sinistra cattolica comunista, nel dicembre, alla vigilia di Natale del 1944. De Luca fu vicino per cultura e «coscienza nazionalista a Giuseppe Bottai e collaborò attivamente a Primato «da sponde lontane, ma non opposte». Togliatti, incuriosito, parlò dellargomento con don De Luca ed ebbe da lui un resoconto accorto e sensibile di completezza e rigore. De Luca spiegò la vicinanza di Bottai con i giovanissimi Mario Alicata, Renato Guttuso, Giaime Pintor, Vasco Pratolini, Carlo Muscetta, Roberto Rossellini e altri antifascisti simpatizzanti con il fenomeno comunista europeo, e ne illustrò i motivi con il fatto che costoro avrebbero comunque incarnato il futuro dibattito sulle sorti del dopoguerra, sulla «grande politica» e i suoi prevedibili interlocutori, da Togliatti stesso a Kruscev, a Giovanni XXIII.
Il discorso filò limpido e naturale come fra due intenditori: uno (Togliatti) non pregiudizialmente contrario alle gerarchie ecclesiastiche e laltro (De Luca) non dichiaratamente avversario della filosofia comunista «verso gli sfruttati ultimi della terra». Prese cioè corpo il concetto sulle «buone intenzioni» del comunismo e di altri totalitarismi. Fu una tenzone di principio in cui la polemica sembrò attutita da una forma di reciproca comprensione fra cattolicesimo e sinistra estrema. Nessun cedimento o concessione dalluna o dallaltra parte, ma un delicato, raffinato riguardo fra le due più solenni concezioni dellepoca attuale e antica: la trascendenza o il materialismo. Cristo non invadeva il campo di Lenin, e Lenin (sulla carta) non calpestava il dominio della religione. Ognuno con i propri doveri, dottrine e poteri. Don De Luca parlò, con spirito equo e con rispettosa comprensione, delle ragioni «comuni antiborghesi» di comunisti e cattolici.
Ricordo che quel colloquio si svolse in una sala della Biblioteca «officina» di circa centomila volumi del Palazzo Lancellotti di piazza dei Coronari di Roma, dove Togliatti era solito andare a discutere con don De Luca (unico prelato per il quale Togliatti scrisse un necrologio ammirato e partecipe nel 1962).
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