Gli autorevoli e paludati pellegrinaggi a Budapest in occasione del cinquantenario della rivoluzione ungherese hanno coinciso con larrivo in libreria del libro di Enzo Bettiza 1956 Budapest i giorni della rivoluzione (Mondadori, pagg. 143, euro 16,50) e, nel paragone tra i discorsi pronunciati sulle tombe dei martiri da tanti illustri personaggi e la rivisitazione di Bettiza, già famoso per la sua competenza e partecipazione di «uomo dellEst», i pellegrini pentiti ne escono male. Bettiza rievoca quei giorni tragici e ne ricostruisce i traumatici effetti sui partiti di sinistra occidentali, soffermandosi in particolare sui risvolti italiani.
«LUngheria insanguinata, isolata, ignorata, diventa da quel momento (con la crisi di Suez) quantità négligeable della scena internazionale. Nessuno pensa più a soccorrerla, non interessa più a nessuno; ormai è data in preda ai lupi più voraci e vendicativi del Cremlino che si accingono a ingoiarla».
Ma in Italia è peggio, anche perché Bettiza, rovesciando la ricostruzione tradizionale, sostiene che Togliatti non si limitò ad allinearsi allUrss, ma ebbe un ruolo decisivo nellimporre il bagno di sangue e fu anche responsabile dellesecuzione di Nagy: «Ma resterà straordinario limpatto profilattico che le scomuniche di Togliatti, derivate dalle requisitorie anni trenta di Vyinskij, avranno sullapparato del partito comunista italiano, su gruppi consistenti della sinistra italiana, e persino su una parte dellopinione pubblica moderata... La voce di Togliatti, ascoltata a Mosca, acquisterà un risalto e una forza durto che soverchierà tutte le altre in Italia: sarà lui, in quei giorni, il megafono roboante dello spettro di Stalin, il dominatore venerato degli strati popolari comunisti e ammirato da quelli massimalisti del Psi. Milioni di persone, convinte o narcotizzate, consentiranno alle menzogne sullUngheria propalate dal capo di un partito italiano coi toni risoluti e sferzanti di un procuratore sovietico».
«Quei dissidenti, enfatizzati come grandi eretici dalla stampa del tempo, dopo avere stilato il fragile manifesto dei 101, non lasceranno dietro di sé altre testimonianze memorabili. Diversi firmatari del documento, in cui si deprecava con toni assai moderati e cauti lintervento sovietico, appariranno immediatamente pentiti del passo compiuto. Quattordici dei 101, poche ore dopo faranno marcia indietro spaventati e confusi e scriveranno allUnità che qualcuno ha carpito la loro buona fede. Altri, come Spriano e Asor Rosa, reciteranno unammenda pubblica rientrando disciplinatamente nei ranghi, altri ancora non rinnoveranno la tessera per il 1957 e se ne andranno senza clamore, in punta di piedi, sgusciando dalla porta di servizio... Togliatti, bellarminizzando i suoi accoliti, circuendo i dissidenti deboli, stroncando i più resistenti, teneva sempre il coltello dalla parte del manico e tirava fendenti a destra e a manca. Gli riuscirà di conseguire una vittoria spietata perfino sui due contestatori di maggior profilo politico, Antonio Giolitti e Fabrizio Onofri: obbligherà al suicidio delle dimissioni il primo, farà espellere con accuse infamanti il secondo...».
Bettiza concede a Giolitti e ad Onofri di aver rappresentato nel 56 leccezione alla regola servile. Eppure, scrive, essi «sono emblematici di una generazione di comunisti infelici, i quali, ripudiati da Togliatti, non hanno poi trovato la forza morale e intellettuale per gettare con risolutezza la tonaca alle ortiche... Continuamente, puntigliosamente, in una sorta di ossessivo anelito al riscatto, cercheranno di rispondere al richiamo della giungla perduta con una legittimazione di sinistra allesterno del Pci...». E le successive tappe politiche di Antonio Giolitti, «spretato sempre roso dal dubbio», risulteranno piuttosto spente e deludenti.
Prima di indignarsi delle miserie degli «intellettuali organici» italiani e della loro «congenita debolezza cortigiana», Bettiza si sofferma a descrivere i due maggiori protagonisti della tragedia ungherese: Imre Nagy, comunista della prima ora, antieroe della rivoluzione, che in una sorta di metamorfosi si schiera dalla parte della nazione martoriata e non cede agli aguzzini filosovietici che cercano di lusingarlo, impaurirlo, ricattarlo, e che alla fine lo processano e lo impiccano (lo impiccano e non lo fucilano, come scriverà molto tardi Ingrao). E János Kádár, «uomo dapparato e dintrigo», a suo tempo incarcerato e torturato per «titoismo», figura ambigua che consumerà un enigmatico tradimento consegnando il suo popolo a Mosca.
Bettiza cita spesso il suo amico François Fejtö e cita anche il suo amico Indro Montanelli (ma preferisce di gran lunga il primo): «Nel 1956, al centro del groviglio esistenziale di Montanelli si collocano lUngheria e la rivoluzione ungherese. Lassù, sulle barricate di Budapest, sui ponti del Danubio, scossi da un sordo abburattìo dei cingoli, il partecipe testimone toscano viene sconvolto come da una folgorazione somigliante a un corto circuito psicoideologico: il conservatore Montanelli, che per i comunisti è un reazionario quasi estremo, si scopre allimprovviso libertario, rivoluzionario da terza via, anticomunista e antiborghese insieme, anzi più antiborghese che anticomunista...».
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