Torna Banksy, una docu-fiction per indagare su se stesso

Con «Exit Through the Gift Shop» anche la nuova generazione di street artists ha il suo monumento. Un particolarissimo documentario, ma meglio sarebbe definirlo docu-fiction per la continua mescolanza tra vero e falso, realtà e invenzione, a firma Banksy, il più famoso artista di questo movimento, che continua a celarsi dietro un’identità nascosta.
Presentato nel 2010 al Festival di Berlino e al Sundance, candidato all’Oscar nella sezione documentari, uscirà tra poco nelle sale italiane, quindi in home video per Feltrinelli Real Cinema. Usa il pretesto di indagare attorno alla misteriosa figura di Banksy per restituirci il ritratto dell’unica avanguardia artistica di inizio terzo millennio. Volto oscurato, protetto dal cappuccio della felpa, la voce distorta per vanificare ogni possibilità di riconoscimento, Banksy appare e scompare dal film come un fantasma. Vera protagonista è la scena internazionale degli eredi di Basquiat e Haring i quali, a differenza dei loro «progenitori» cresciuti essenzialmente a New York Downtown, si sono diffusi nelle metropoli americane ed europee, da Manhattan a Los Angeles, da Londra a Parigi. Al centro del film è la figura paradossale di Thierry Guetta, un francese grassoccio venditore di vestiti usati a L.A, compulsivamente ossessionato nel riprendere qualsiasi cosa con la telecamera e frequentatore dell’ambiente streeter californiano fino a diventarne parte con lo pseudonimo di Mr. Brainwash, che casualmente si imbatte nel divo misterioso. A questo punto della vicenda, la camera passa tra le mani di Banksy che «gira» il film pedinando Guetta nei suoi happening. Così ci imbattiamo nell’altro grande protagonista della New Street, Shepard Fairey, diventato famosissimo per il ritratto bicromo di Obama. A differenza di Banksy lui insegue la celebrità e il successo, concedendo il proprio volto da teenager cresciuto al sistema delle gallerie, delle mostre e dei dollari.
Ma cosa differenzia la scena attuale da quella uscita nell’80 da «Times Square Show», la rassegna che impose un gruppo di ragazzi emersi dalla metropolitana, dalla musica hip hop e dai bassifondi della suburbia? Innanzitutto il linguaggio. Quello di oggi è molto più fluido e assai meno pittorico. I giovani streeter del Duemila prediligono grandi disegni su carta che affiggono agli edifici fatiscenti delle periferie, quindi gli stickers che appiccicano dovunque creano una segnaletica alternativa, un codice riservato agli adepti. C’è inoltre un divario netto tra i pochi che possiamo considerare artisti e i tanti imbrattamuri che seminano il panico: i primi sono diventati fenomeni di moda e di costume (alle inaugurazioni di Banksy presenzia il jet set internazionale, a cominciare da Brad Pitt e Angelina Jolie, tra i suoi collezionisti), gli altri restano un flagello che deturpa gli spazi pubblici.
Tornando al film, a molti è venuto il dubbio che Thierry Guetta sia una specie di prestanome o alter ego di Banksy. Se così fosse, ne verrebbe rafforzata la teoria di chi pensa che lui non sia un genio ma un impostore, non un talento ma un fenomeno costruito a tavolino. Se alcune sue immagini sono diventate icone dell’ultimo decennio, altre operazioni ammantate di significato politico lasciano il tempo che trovano.

In ogni caso, il meccanismo è sempre quello inventato da Andy Warhol nella Factory e la metodologia di lavoro sostituisce il telaio serigrafico degli anni ’60 con il photoshop. Il resto appare contiguo all’era pop, senza balzi improvvisi né svolte stilistiche ma con uno spiccato senso dello spettacolo e del glamour (Brainwash ha realizzato la cover dell’ultimo greatest hits di Madonna).

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