Era il 1968 quando Einaudi pubblicava la traduzione del romanzo di un francese «debuttante»: Michel Tournier. Il libro si intitolava «Venerdì o il limbo del Pacifico». Il giornalista e romanziere transalpino aveva esordito nel mondo del romanzo l'anno precedente appunto con questa rilettura della celebre storia raccontata a suo tempo (nel 1719) dall'inglese Daniel Defoe. A oltre trent'anni di distanza Einaudi riporta in libreria questo titolo, ormai assunto alla categoria di classico della letteratura francese del Novecento. Insomma un classico che a sua volta si fonda su un altro classico. Perché non si può certo negare alla storia raccontata da Daniel Defoe questo status. Al contrario, si potrebbe addirittura considere lei (la storia) e il suo protagonista (Robinson) due miti letterari. E come tali riutilizzabili, quindi, all'infinito.
Rileggere oggi «Venerdì o il limbo del Pacifico» è un'operazione intelligente ma tutt'altro che facile. Trattandosi dell'adattamento «moderno» di un classico, l'attenzione inevitabilmente si attarda sulle novità e sulle differenze. Tournier trasforma il «manifesto» della nuova borghesia britannica (secondo la celebre definizione di Ian Watt) in un romanzo filosofico. E non ha torto. Defoe, infatti, partiva dal presupposto che la storia doveva celebrare l'homo faber, colui che domina la Natura e che - grazie anche alla Bibbia e al mito del buon selvaggio (un Rousseau ante litteram) - era capace di ricostituire quel nucleo essenziale di civiltà moderna anche in una sperduta isoletta dell'oceano Pacifico. Tournier, influenzato in questo dalle nuove scienze sociali che proprio in Francia e proprio negli anni Sessanta stavano esplodendo, si pone tutta una serie di domande che per Defoe erano - a torto - secondarie. Insomma, è impossibile pensare che un naufrago non si ponga interrogativi esistenziali trovandosi da solo su un isolotto in mezzo al mare. Tournier cerca di andare in profondità e addirittura arriva a simulare il rischio di afasia che un simile naufragio potrebbe comportare per chi non trova più l'utilità del linguaggio.
Indubbiamente il romanzo riuscirebbe al meglio se non ci fosse una leggera penchant moralista. Il naufrago si autopunisce per i suoi continui abbandoni panteisti, proprio perché i retaggi della cultura occidentale sono duri a morire anche in un luogo «altro» rispetto alla civiltà. Le intuizioni migliori, però, sono proprio quelle che riguardano il rapporto tra l'uomo «nuovo» di Tournier e il retaggio della civiltà d'origine. Robinson in fin dei conti sembra quasi un pioniere della new age dei giorni nostri. Si sente rinascere a una nuova innocenza proprio nel momento in cui non sente più il peso del tempo. Quando si ritrova in un eterno presente, Robinson è felice e soprattutto appagato. Fa bene però Giuseppe Montesano nella prefazione di questa nuova edizione del libro a sottolineare che l'innocenza non è più tale se il momento che la celebra si ripete all'infinito. Il romanzo, quindi, si pone alla fine come un felice banco di prova per chi non si accontenta più della storiella borghese di Defoe. Utile per riflettere sulla condizione umana ma sicuramente non più sufficiente. D'altronde il «mito» di Robinson è più attuale che mai. E non solo perché a ogni pie' sospinto trovi qualcuno che sospira citando i celeberrimi versi di John Donne («Nessun uomo è un'isola»), ma perché, come ricordava qualche anno fa il filosofo Derrick De Kerckhove, la tecnologia ha raggiunto tali livelli di perfezione da costruire intorno a noi quasi un tessuto connettivo che diventa medium di informazione e quindi di esperienza mediata. Isolandoci così dal mondo reale.
Anche il pur popolare film di Zemeckis «Cast away» (2000) con Tom Hanks non riesce a riprodurre con autenticità il rapporto tra l'uomo post-industriale di oggi e la natura primordiale. Perché l'uomo di oggi è «incompetente» e soprattutto non saprebbe adattarsi a una realtà così selvaggia e poco malleabile come quella di un'isola sperduta nell'oceano.
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