Ritorna. E alla faccia del politicamente corretto, porta vendetta, cavalca appaloosa che sfidano il vento, scola whiskey trinciabudella e spara col fucile come ai beati tempi in cui tra i canyon vivevi o morivi a seconda dei tuoi riflessi. E zero baci tra ragazzi addetti alle mucche (vedi Brokeback Mountain), niente sceriffi afroamericani (come Will Smith in Wild wild West) perché il western, adesso, va di moda classico. Magari rimodulato in dosi d’ironia contemporanea: chi crede più al lieto fine? Infatti la coraggiosa ragazzina Mattie Ross (Hailee Steinfeld), che ne Il Grinta dei fratelli Coen - splendido rifacimento dell’omonimo film del 1969, con John Wayne nel ruolo del pistolero ubriacone Rooster Cogburn -, ammazza chi le ha ucciso il padre, finirà acida zitella monca. Un vero peccato, con il bel Texas Ranger Matt Damon (candidato all’Oscar) nei dintorni delle sue trecce. Intanto, però, ha personalmente fatto fuori l’assassino del padre e in una cavalcata selvaggia sotto a un cielo di stelle purissime, mentre Il Grinta (il premio Oscar Jeff Bridges) la porta dal dottore, avvelenata com’è dal morso d’un serpente, i cadaveri dei loro nemici lastricano il deserto. Altro che Bollywood, con la melassa indiana dei balletti colorati: qua l'Occidente in crisi rispolvera la materia grezza, per trarne oro, come facevano i pionieri del selvaggio West. Negli Usa True Grit (titolo originale del romanzo di Charles Portis, pubblicato a puntate nel 1968 dal Saturday Evening Post e fonte ispirativa dei Grinta) è uscito il 22 dicembre, rastrellando 126 milioni di dollari al box office. È anche candidato agli Oscar come miglior film. Mentre lo aspettiamo per il 18 febbraio (distribuito dalla Universal), questo western ambientato nell’America di frontiera, dopo la Guerra Civile, il 10 febbraio aprirà il FilmFest di Berlino e scommettiamo che l'irriverente stile Coen «non-è-un-paese-per-vecchi» (dialoghi affilati e risate garantite: se no perché Spielberg figura tra i produttori?) verrà apprezzato nella vetrina berlinese. Dove paga il binomio rudezza e battute («Sono anni che i Texas Ranger raccontano di bere l’acqua dalle orme dei cavalli!», sbuffa Jeff Bridges, mentre Damon vanta prodezze da vaccaro).
C’è un ritorno del genere, insomma, e a Hollywood gli studi Universal insistono sul lato comico - sempre citando l’iconografia tipica del Wild West, ma disossata dal romanticismo alla Sergio Leone - perché il 19 luglio mandano in pista Cowboys&Aliens (il 9 settembre da noi): il titolo è tutto un programma. Ancora un cast di celebrità (da Daniel Craig come Jake Lonegan, cowboy senza memoria, né passato al sessantasettenne Harrison Ford, starring il tosto colonnello Dolarhyde) e di nuovo la cosa buffa, dal tono sci-fi e western-fantasy, diretta dall'ex-fricchettone del cinema indipendente Jon Favreau (Iron Man).
Come nella serie omonima dei fumetti, creata da Scott Mitchell Rosenberg, siamo nell’Ottocento e nella desertica Absolution il cowboy Lonegan si aggira stralunato, manetta luminescente al polso. Sul poster di Cowboys&Aliens (identico a quello de Gli spietati, 1992, con Clint Eastwood: il gusto rétro torna sempre là), Craig, di spalle, fissa la luce azzurrina, che promana da un’astronave nel deserto dell’Arizona. Là dentro ci sono gli alieni, che vogliono rapire gli uomini e ridurli in schiavitù. Ovvio che i visi pallidi avranno bisogno degli Apache, minacciati anch’essi dagli extraterrestri. «Stanno tornando! Stanno tornando!», grida Harrison Ford, riferendosi agli alieni. Ma potrebbe riferirsi agli eroi western come lui, qui uno Han Solo ironico, mentre incombe la fine del mondo.
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