TRE MOTIVI

La conferma in appello della condanna a morte di Saddam Hussein era prevista. La rendevano inevitabile sia l’efferatezza dei crimini addebitati - con sovrabbondanza di prove - all’ex dittatore, sia le modalità d’un processo a senso unico. Nessuno al mondo - il mondo almeno di chi ha rispetto per la legge, e ripugnanza per il crimine - può ritenere che la sentenza di Bagdad sia un errore giudiziario. La colpevolezza di Saddam è conclamata, la sua ferocia documentata. Con logica brutale ma non campata in aria si può osservare che Saddam impiccato sarà una fievole e tardiva rivalsa per i molti, moltissimi da lui in svariate forme sterminati. Ma il discorso non è così semplice: lo dimostrarono i dibattiti successivi alla prima sentenza, lo dimostrano le reazioni - italiane e straniere - dopo la seconda, e i tanti appelli contro l’esecuzione del rais.
Le motivazioni di chi vuole che gli sia risparmiata la vita sono sostanzialmente tre. Prima motivazione. Si oppongono anzitutto coloro - sono anch’io del numero - che per ragioni di principio rifiutano la pena capitale: sapendo che in determinate circostanze è popolare e acclamata, ma considerandola estranea al costume, alla cultura, alla civiltà moderna. Si obbietterà che democrazie consolidate e genuine come la statunitense l’applicano. L’argomento è di peso ma - per i seguaci di Cesare Beccaria - non definitivo né persuasivo.
Seconda motivazione. La Corte che ha deciso la sorte di Saddam era senza dubbio espressione d’una giustizia dei vincitori. Questo non significa per niente che la sua pronuncia sia iniqua. I nazisti imputati a Norimberga meritavano certamente - esistendo la pena di morte - di finire con il cappio al collo. Ma il verdetto venne pronunciato anche da giudici sovietici che con pieno diritto imputavano ai nazisti le atrocità compiute nella loro terra, ma che erano alle dipendenze del procuratore Vyshinskij, l’organizzatore dei processi farsa contro innocenti, e di Stalin, primatista assoluto quanto a crimini contro l’umanità: morto per malattia e non sulla forca.
La giustizia dei vincitori ha una precisa caratteristica: colpisce chi ha perso il potere, non chi lo detiene. Personaggi che poco hanno da invidiare a Saddam in comportamenti dispotici e se occorre sanguinari sono non di rado accolti col tappeto rosso da governanti democratici. So che la politica e la diplomazia quando vogliono hanno la memoria corta: e non verrà indulgenza al rais nemmeno da chi in anni non remotissimi lo frequentò. Ma qualche perplessità sul rigore di oggi dopo le socievolezze di ieri è lecito avanzarla.
La terza motivazione (che forse è la più concreta e solida) attiene alle conseguenze che l’esecuzione potrebbe avere in Irak. Già il Paese - che è un mosaico di etnie e fedi religiose più che un autentico Stato - appare in preda a una cruenta guerra civile: divampante anche in presenza del poderoso esercito americano. È difficile prevedere cosa precisamente succederebbe il giorno in cui il rais odiato da milioni di ex sudditi ma da altri ancora osannato diventasse a tutti gli effetti il simbolo della resistenza contro l’odiato straniero, il martire nello stesso tempo della Patria e dell’Islam. Ma è facile prevedere che non succederebbe nulla di buono.
Il dilemma - esecuzione o meno - che attanaglia la dirigenza irakena non è giudiziario né di principio.

È un dilemma essenzialmente politico. Concerne l’opportunità dell’impiccagione assai più che le sue pezze d’appoggio legali e morali. Il problema investe il governo di Bagdad e investe in misura non minore il governo degli Stati Uniti.

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