Il triangolo l'avevano considerato. Ma è surreale

Si chiama Grebic l'uomo che sconvolge l'esistenza di Martin, un ragazzo di tredici anni che vive in un'imprecisata città di mare

Il triangolo l'avevano considerato. Ma è surreale
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Si chiama Grebic l'uomo che sconvolge l'esistenza di Martin, un ragazzo di tredici anni che vive in un'imprecisata città di mare. Ad aprirgli le porte di casa è stata la madre di Martin, con il pretesto di avere una mano in più per le faccende domestiche; un po' gentleman e un po' maggiordomo, piacente e apparentemente «perfetto», Grebic ne è, naturalmente, l'amante. Eppure l'ultimo romanzo di Giuseppe Aloe (Le cose di prima, Rubbettino, pagg. 209, euro 19) non è una storia di corna, ma un apologo la cui decifrazione promette di destabilizzare il più serafico dei lettori. A far volare il romanzo oltre ogni banalità è la figura del padre; mite lettore di romanzi francesi dell'Ottocento (con l'eccezione eloquente di Flaubert), invece di reagire all'inconcepibile invasione di campo accetta la situazione aberrante, fino a tollerare i gemiti della nuova coppia che ben presto prende possesso della camera matrimoniale, rincasa a notte fonda senza salutare, amoreggia nei parchi. La vita familiare è distrutta, ma scorre quasi come prima, senza incamminarsi verso una risoluzione logica: nessuno accenna a una separazione o divorzio, come se lo stato delle cose non solo fosse indiscutibile, ma doveroso e persino, in alcuni passi che rasentano l'allucinazione morale, auspicabile.

Nei romanzi, quando una vicenda si svolge nel silenzio del diritto e della comunità, quando l'autore rigetta ogni ciarpame naturalistico, è inevitabile pensare a un'allegoria. Grebic è l'entità impersonale che umilia e dopo averci spossessato di qualcosa che credevamo nostro non si allontana con la refurtiva, ma rimane, per ricordare che non è possibile guarire dalla perdita: perché essa non è uno stato, ma l'innesco di un processo. Elias Canetti, in Massa e potere, vede l'umiliazione come una spina infissa nella carne. Qui si affaccia un'altra possibile chiave di lettura, ed è il tempo, anzi «ciò che è stato», come lo chiamava Nietzsche. Pulendosi la bocca con il dorso della mano dopo aver mangiato un'albicocca, la madre di Martin sibila «Tu e tuo padre siete la mia morte».

E il figlio: «Non eravamo la sua morte, solo la sua storia, forse sbagliata, forse irrespirabile». E certo l'unico rimedio a «ciò che è stato», alle «cose di prima», è l'amor fati, un boccone a volte molto difficile da inghiottire.

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