!["Trieste è una lingua che inventa i suoi autori"](https://img.ilgcdn.com/sites/default/files/styles/xl/public/foto/2025/02/14/1739517151-arno-senoner-dvsizqdn0ls-unsplash.jpg?_=1739517151)
Da triestino che vive a Roma da molti anni, Mauro Covacich torna a casa per parlare di tre «santi» cittadini, numi letterari di una città letteraria per eccellenza, e del rapporto personale con questi «giganti», parola che fa rima talvolta con «ingombranti»... Lo fa con la sua Trilogia triestina. Svevo, Joyce, Saba (La nave di Teseo): tre monologhi, che Covacich ha portato a teatro in questi anni singolarmente e che il 27 febbraio andranno in scena per la prima volta insieme al Politeama Rossetti di Trieste.
Come è nata l'idea?
«Per sbaglio. L'allora direttore del Politeama Rossetti, Franco Però, mi chiese una pièce e nacque Svevo. Ma poi mi disse: devi farlo tu questo testo... E così mi sono improvvisato attore. Il nuovo direttore Paolo Valerio ha rilevato il progetto e ora andrà in scena l'intera Trilogia».
Qual è la continuità fra i tre monologhi?
«Innanzitutto mi sono reso conto che ci sono alcuni personaggi secondari ricorrenti, come Eugenio Montale, Carlo Levi, Primo Levi, Pier Antonio Quarantotti Gambini. Raccontando Svevo, Joyce e Saba, racconto un ambiente, geografico e culturale, che li unisce, in un reticolo di rimandi».
Il più evidente?
«La ricerca linguistica. Si tratta di autori famosi della letteratura, che hanno trovato in Trieste la ricchezza di una anomalia. Prendiamo Svevo: l'autore di uno dei più importanti romanzi del Novecento italiano aveva imparato la nostra lingua sui libri di scuola. Un fatto non troppo noto, benché lui stesso vi insista in vari punti della Coscienza di Zeno».
Come fa?
«Trasforma un limite in una risorsa enorme e lo rende anche trasparente. Un genio. Nel gioco fra menzogne e dichiarazioni della Coscienza, Zeno ammette perfino di avere ingannato lo psicanalista: Una confessione in iscritto è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo!. Gli ha confidato soltanto le cose che è riuscito a mettere per iscritto in italiano...»
In che lingua parlava Svevo?
«In dialetto triestino. Una lingua parlata a tutti i livelli sociali e, fino alla caduta del Muro di Berlino, una lingua franca: quando si andava in Istria e Dalmazia, in triestino ci si capiva. Era un dialetto transnazionale, usato da tutti, anche ai magistrati e dai cardiochirurghi. E da Joyce».
Impara il dialetto?
«Lui parla moltissime lingue, e scrive in triestino le lettere a Svevo. È proprio grazie all'isolamento di cui gode a Trieste, cioè grazie al fatto che non pratichi l'inglese, se non per insegnarlo, come fa con Svevo appunto, che Joyce riesce a intervenire sull'inglese come nessuno prima di lui: lo tratta come una lingua morta, disseziona le parole e le inventa».
Che cos'altro accomuna Svevo e Joyce?
«Appartengono a quella che Deleuze e Guattari definiscono letteratura minore, ovvero che fa un uso minoritario di una lingua maggiore, come Kafka. Svevo usa l'italiano, ma non lo pratica; Joyce dice di sentire estranee le parole dell'inglese, perché parla un gaelico moderno. Anche Coetzee appartiene a questa famiglia di autori che hanno scelto una lingua acquisita perché, da afrikaans, parla boero. Tutti questi scrittori hanno una profonda alterità dentro la loro ricchezza linguistica: c'è un altro da sé, dentro questa lingua».
Con quali conseguenze?
«Questa lingua ha una forza di verità, di rivelazione del sé, perché tradisce l'autore stesso. Si immagina che l'autore abbia una padronanza della lingua che usa, invece c'è sempre un elemento della lingua e della scrittura che ti frega e ti dice qualcosa di te che non pensavi: ti senti giocato dalla lingua».
Nasciamo in qualche modo dalla lingua?
«Essa ha un carattere fondativo: se uno legge Joyce, può avere l'impressione che la vita stessa sia una esperienza linguistica, che la lingua sia il luogo in cui la vita si forma. Il linguaggio non è una invenzione dell'uomo, bensì gli uomini sono una invenzione della lingua; la quale è uno strumento, ma è anche casa».
Anche Trieste è una invenzione della lingua?
«Forse nessuna città più di lei. Trieste è due città: quella reale e quella immaginaria; e, come ha detto Claudio Magris, è quest'ultima la più vera. La Trieste a cui tutti pensiamo è quella che si è manifestata nelle opere della letteratura triestina e nell'idea della triestinità letteraria».
E Saba come si colloca?
«A proposito di Svevo, dice: Poteva scrivere bene in tedesco, ha deciso di scrivere male in italiano. Ma fra i due non scorreva buon sangue... Saba è un triestino che non ha mai scritto in triestino, che crede nell'italiano e in una sua personale classicità. Ha con Trieste un vincolo, anche faticoso, da sopportare: è un triestino che non ha mai risolto il suo rapporto con Trieste, e forse anche da qui nasce la bellezza delle sue poesie».
Che rapporto hanno i tre con la città?
«Svevo è realizzato: un uomo ricco, un uomo d'affari, potente. Joyce sta benissimo a Trieste, ci vive per dodici anni. A un certo punto si accorge che ci sono tante sale cinematografiche e, fiutando l'affare, vuole aprirne una a Dublino: Svevo gli fa un prestito, anticipando il pagamento delle lezioni di inglese... Ma è un esperimento fallimentare. Invece Saba ama e odia Trieste. Ma alla fine, quando non ha più nulla da perdere, ed è disperato, depresso, in una clinica, inizia a scrivere Ernesto, un romanzo incompiuto, che ritiene impubblicabile, e che ha ampie parti in triestino».
Perché?
«Perché è un romanzo di smascheramento di sé, in cui confessa la sua omosessualità. Dopo anni di occultamento, la dichiara al mondo e lo fa col dialetto».
Trieste è ancora una città speciale?
«Sì.
Lo è ancora. C'è un eccesso di turismo, ci sono le navi da crociera, c'è il maquillage; ma, sotto, ci sono dei tratti profondi, e la consapevolezza di essere un'isola. Una anomalia, una eccentricità. E tutto questo è rimasto».
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