Un trionfo che politici e sinistra non volevano

La coppa Davis del 1976 mi offrì l’opportunità d’occuparmi, da giornalista, di sport: opportunità ghiotta perché l’interesse delle cronache sportive supera di molto quello che i lettori riservano alle vicende del Corno d’Africa o a una riunione della Nato. Le mie credenziali per seguire la trasferta della squadra capitanata da Nicola Pietrangeli non erano certo tennistiche. Il fatto che da giovane avessi impugnato la racchetta, con risultati deprimenti, non legittimava una missione all’altro capo del mondo. Vi fui mandato perché avevo esperienza delle vicende cilene - ero nella capitale Santiago, per il Corriere della Sera, il giorno del colpo di Stato contro Salvador Allende, 11 settembre 1973 - ed ero intervenuto nella polemica che aveva diviso, nell’imminenza della sfida di coppa Davis, la sinistra e i «moderati».
Gli sviluppi di quella polemica sono ben spiegati da Pietrangeli, nell’intervista di Lea Pericoli. Il Giornale aveva preso risolutamente posizione per la partecipazione dei tennisti italiani alla gara. L’argomento usato per sostenere questa tesi era d’estrema chiarezza. L’andare in Cile non significava appoggio alla dittatura di Augusto Pinochet. I giovanotti che si sarebbero affrontati sulla terra rossa non erano portatori di ideologie politiche ma di ideali sportivi. La confusione tra sport e politica - e tra sport e potere - era tipica dei regimi totalitari di qualsiasi colore. Infatti la squadra di coppa Davis dell’Urss, forte del retaggio di tolleranza e di democrazia assicuratole dal noto liberale Leonid Breznev, aveva rifiutato d’incontrare la cilena, contaminata da Pinochet: spianando così il cammino ai nostri.
Mi sembrava che questo ragionamento fosse di una logica impeccabile. Ma in Italia l’opposizione a Pinochet aveva assunto e manteneva toni incandescenti. Tutte le grandi democrazie avevano rimandato a Santiago, dopo averli richiamati per qualche tempo, i loro ambasciatori, solo l’Italia tenne l’ambasciata senza titolare fino alla caduta della dittatura. Pietrangeli racconta con efficacia quale fosse il clima, e come una faccenda tutto sommato marginale - perché non atteneva certo ai supremi interessi del Paese o a problemi decisivi per le sorti dell’umanità - avesse assunto toni esasperati, a volte quasi farneticanti, da crociata. Va aggiunto che nell’ansia di non volere grane la dirigenza democristiana degli Andreotti e dei Forlani, stimabili politici ma non dei cuor di leone, avrebbe volentieri tenuto a casa Panatta, Bertolucci, Barazzutti e Zugarelli.
Invece all’ultimo lo sport prevalse. Metà dicembre è in Cile come metà giugno da noi, anche Santiago - capitale di non particolare bellezza, tranne che per lo scenario delle Ande - faceva bellissima figura. Gli uomini di Panatta vinsero, in un’atmosfera cordiale e anche affettuosa, per la felicità della comunità italiana in Cile che simpatizzava in larga maggioranza per Pinochet, e che sentiva come un abbandono della patria lontana la mancanza dell’ambasciatore: sostituito benissimo, nella circostanza, dai tennisti trionfatori.
Vale forse la pena di ricordare che lo stesso dilemma della Davis si ripresentò quattro anni dopo, a ruoli invertiti, per le Olimpiadi di Mosca del 1980. Gli Stati Uniti s’erano battuti affinché - in segno di protesta per l’occupazione sovietica dell’Afghanistan - le democrazie boicottassero i giochi di Mosca (l’Italia adottò un compromesso furbetto, inviando una rappresentativa senza atleti militari): e i «moderati» approvavano la presa di posizione statunitense, mentre la sinistra tuonava contro l’indebita commistione di sport e politica. Memore della posizione che il Giornale e io stesso avevamo assunto per la Davis scrissi un «fondo» nel quale sostenevo che per coerenza si doveva andare a Mosca così come si era andati a Santiago. Montanelli aveva aderito alla mia tesi. Non così Enzo Bettiza che - come sempre con grande sottigliezza - perorò in un successivo articolo la tesi opposta.

Poi finì che a Mosca ci andai anch’io per illustrare il côté politico d’un avvenimento sportivo. Rimango del parere che sia stato giusto essere presenti in Cile e che sarebbe stato egualmente giusto - nel nome della separazione tra sport e politica - essere presenti a Mosca.

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