Il turismo solidale dei ragazzi? Una moda da «neocolonialisti»

Un’organizzazione di volontariato britannica stronca l’impegno di molti studenti: «Invece che essere utili, spesso fanno danni»

Eleonora Barbieri

L’accusa è stata lanciata in famiglia. I bravi studenti, quelli che decidono di trascorrere un anno sabbatico in un Paese del Sud del mondo, non sono tutti così buoni e, neppure, così utili. Sempre più spesso - sostiene il Voluntary Service Overseas (Vso), organizzazione inglese impegnata nella cooperazione internazionale - il «turismo solidale» non è altro che «una nuova forma di colonialismo»: ragazzi viziati e con un patrimonio sostanzioso alle spalle si godono soltanto una vacanza alternativa, tornando a casa entusiasti per le nuove amicizie e le esperienze accumulate.
Il mondo, però, notava ieri Patrick Barkham sul quotidiano The Guardian, «è sempre lì da salvare». Tanto che, secondo Vso, a volte i bravi ragazzi fanno più male che bene, perché sono senza esperienza sul campo e, soprattutto, si preoccupano di divertirsi, più che di aiutare davvero le comunità di cui sono ospiti. Nessuno si aspetta che, a risolvere i problemi dell’Africa (la meta preferita dei giovani inglesi e americani), dell’Asia o del Sud America siano i rampolli dell’aristocrazia o dell’alta finanza britannica, tanto meno i responsabili di Vso. Secondo la responsabile per il Regno Unito Judith Brodie, però, lo scarto fra gli interessi «materiali» degli studenti e la loro presunta solidarietà è troppo ampio. Equipaggiati con iPod e cellulare, i diciottenni sono preoccupati soprattutto di riempire l’anno fra la fine degli studi superiori e l’università: dopo essersi assicurati un voto eccellente in una scuola prestigiosa e un posto in un’università d’élite, resta soltanto da completare il curriculum con una esperienza politicamente corretta.
La famiglia reale ha dato il buon esempio, spedendo gli eredi Windsor in capo al mondo: William è andato in soccorso degli alunni cileni e Harry ha cercato di rifarsi un’immagine da buon principino in un orfanotrofio del Lesotho. Operazione da pubbliche relazioni, più che da volontari appassionati. E il problema, secondo l’associazione, non è nemmeno solo questo ma, piuttosto, l’industria del volontariato, che confeziona «pacchetti» di viaggi solidali che attirano i giovani in cerca di impegno, senza offrire un programma ben strutturato. «È un business in crescita e c’è molta competizione - ha spiegato Brodie al quotidiano britannico - e, quindi, gli obiettivi possono non coincidere con le esigenze reali della comunità in cui i ragazzi sono inseriti». L’importante è partire, poi si vedrà: e le abitudini di casa (come uscire per ubriacarsi tutte le sere) possono rimanere parte del patrimonio da condividere con le culture locali, come racconta un 22enne al lavoro in una scuola in Ecuador. Chi non ha esperienza può compensare con la buona volontà e la passione. Fondamentale, però, è il ruolo dell’organizzazione: «Molto dipende da chi coordina - racconta al telefono Marek Rembowski, responsabile dei campi di lavoro romani del Servizio civile internazionale, associazione di volontariato nata nel 1920 -. Può esserci qualche ragazzo meno motivato ma, in gran parte, chi partecipa ai nostri progetti è mosso dal desiderio di conoscere altre culture e di essere utile, anche in modo concreto. La prossima settimana, ad esempio, saremo impegnati nella ristrutturazione di un locale per una mediateca e i ragazzi avranno occupazioni manuali: pulire, scrostare la vernice, pitturare le pareti. Non sono certo attività per ragazzini viziati. L’importante è non perdere mai il senso di ciò che si fa».


Per questo, l’organizzazione prevede delle schede di valutazione, che i volontari devono compilare ciclicamente: «Se perde significato per chi vi partecipa, il progetto può cambiare o, in casi più rari, essere interrotto: ma devono essere i responsabili a spiegare l’utilità del lavoro portato avanti giorno dopo giorno. I giovani, così motivati, sono una risorsa. Ma, forse, gli anglosassoni amano troppo il business: e magari presentano i campi di lavoro come mete di vacanza».

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