Bruno Costi
Solo poche settimane fa la quasi totalità della classe dirigente italiana plaudiva fino a spellarsi le mani allingresso del colosso francese Bnp Paribas in Italia con lacquisizione della Banca Nazionale del Lavoro, un pezzo di storia finanziaria del Paese.
«Ha vinto il mercato», dissero in molti; «È la fine tardiva della retrograda difesa dellitalianità delle banche, voluta da quel dirigista di Antonio Fazio», aggiunsero in tanti.
Seguendo quellabbrivio potremmo continuare a rallegrarci. Che entrino, che entrino i capitali esteri in Italia; che lancino Opa, che acquistino Mediobanca, Generali, Telecom, Capitalia, si accomodino pure i nostri partner europei, in omaggio alla libertà di circolazione dei capitali, in omaggio allEuropeismo, alla fratellanza finanziaria, alla maggiore efficienza e concorrenza che tutti qui aspettiamo da decenni; facciano pure con comodo e ci illuminino dei loro capitali, dei loro modi di operare gestire, investire, ci insegnino insomma come si opera con le regole del mercato.
Sicché nel frattempo è arrivato lo schiaffo francese allEnel. E siamo qui a riflettere che non è possibile che accada proprio ad unazienda italiana dellenergia, di quella stessa Italia europeista e mercatista che ha consentito alla finanza francese di mettere radici in Italia.
Pensavamo che il mercato e la libera circolazione dei capitali nel grande continente europeo fosse davvero una realtà per tutti i Paesi membri, che il concetto di reciprocità non fosse solo un galateo politico ma anche una conquista industriale e finanziaria, e che nella corsa alla concentrazione ed allacquisizione di quote di mercato nel continente europeo, in atto ormai da più di 24 mesi, anche le imprese, i capitali e i capitalisti italiani avessero gli stessi diritti di quelli francesi, spagnoli, tedeschi. E ci aveva illuso il fatto che Unicredito fosse riuscita a fare lacquisizione della HypoVereinsbank tedesca.
Ed invece, ora che allEnel si dice ruvidamente «no» appena tenta di presentarsi con capitali e azioni di mercato in Francia, ora che il primo ministro francese de Villepin, lascia trascorrere solo una manciata di ore dalle indiscrezioni italiane per telefonare direttamente a Berlusconi intimandogli un «giù le mani da Suez» che ancora brucia, ci rendiamo conto che nella migliore delle ipotesi siamo stati ingenui a lasciare che, con Antonveneta agli olandesi e Bnl ai francesi, si lanciasse il messaggio politico che, sì signori, in Italia ora che non cè Fazio, si può, si può tutto, compreso stracciare quegli accordi firmati tra governi, laddove Roma restituiva il diritto di voto ai francesi di Edf entrati nel capitale della Edison, a patto che Parigi aprisse le sue frontiere come noi avevamo fatto.
Che fare ora? Su input di Berlusconi, Fini, Tremonti e Scajola sapranno difendere gli interessi nazionali non solo dai francesi ma anche dalla sgangherata sinistra italiana, «amica del giaguaro» pur di far dispetto al centrodestra. Nel frattempo però sarebbe utile chiarirci le idee almeno su un malinteso concetto di mercato e di concorrenza. Essi sono un valore, una conquista, un fine ultimo per chi non li ha. Ma per noi che li abbiamo, al punto che altri se ne approfittano, vanno considerati non un fine ma un mezzo, uno strumento da utilizzare per creare sviluppo, crescita delleconomia, rilancio dellindustria italiana, occupazione, benessere. Anche la concorrenza, certo, favorisce la crescita, ma nei tempi lunghi, quelli che la aggressiva finanza europea predilige per completare, nel frattempo, il disegno egemonico di crescita in Europa a danno dellItalia.
Inoltre occorre un progetto industriale per il Paese con lindicazione dei settori sui quali lItalia deve vincere (biotecnologie, nanotecnologie, turismo?) e quelli nei quali non può perdere (energia, finanza, telecomunicazioni?) e limpegno a concentrare su questi settori risorse e politiche da Sistema Paese.
Se dunque la questione è di strategia politica a tutto tondo è lì sul tavolo della politica internazionale che va affrontata la questione.
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