Ultima fermata una baracca. Viaggio nelle favelas all’ombra dei quartieri chic

In via Tor di Quinto, capanne e rottami, prostituzione, spaccio: tutto ai piedi di collina Fleming, la zona più ricca di Roma

Ultima fermata una baracca. Viaggio nelle favelas all’ombra dei quartieri chic

da Roma

Nel giorno in cui sepplisce i suoi morti, Roma continua a scandire l’appello delle sue favelas. Scopre le tante città clandestine che si nascondono nella città ufficiale, i villaggi che si annidano intorno alle strade, ai fiumi e alle ferrovie, nei punti di sutura della metropoli. La più strana di tutte le favelas di Roma è a pochi metri da quella in cui è stata uccisa Giovanna Reggiani, e si nasconde - come un villaggio vietnamita - in mezzo alla vegetazione: prolifera sotti i ponti della tangenziale, si mimetizza ai piedi del quartiere più ricco di Roma - collina Fleming - perchè anche qui, come in Brasile la povertà e la ricchezza si guardano in cagnesco, ma si marcano stretto. A via Tor di Quinto, di fronte alle case del quartiere Fleming che raggiungono quotazioni vertiginose negli annunci delle agenzie immobiliari, c’è un fazzoletto di città dove convivono le storie più diverse.
A via Tor di Quinto, proprio dove la leggenda vuole che riposino nel loro cimitero i legionari romani, nello stesso ritaglio di terra si allenano i giovani talenti della Boreale - una delle squadre più antiche della città - si riuniscono i ragazzi del Trifoglio (uno dei più forti gruppi della destra radicale), giocano squadre di giovani avvocati dai nomi improbabili («Real fettucchine»), e si coricano per dormire centinaia di disperati. «Splendida e misera città» scriveva Pierpaolo Pasolini, con versi che qui calzano a pennello. La storia di questo taglio di città è degna di un film: gli impianti della polisportiva, bellissimi e moderni furono costruiti per i mondiali di Italia ’90, ma (come spesso capita) mai consegnati. E la Boreale restava l’unica grande squadra cittadina a non avere campi dove allenarsi: ha continuato ad affittarli fino al 2003, quando i neofascisti del Trifoglio decidono la prova di forza. Occupano la struttura in degrado, la ristrutturano, la offrono alla Boreale e al quartiere. Succede qualcosa di strano: i ragazzi si allenano, negli impianti nasce anche un centro di assistenza per bambini autistici, il centro inizia a vivere. Quelli del Trifoglio non piantano bandiere, e intorno alla Boreale convivono identità diversissime: la squadra nata in una parrocchia fondata dal sacerdote, don Marino Marani; ad allenare i ragazzi c’è un dirigente della Rai; sulle panchine del pubblico un dirigente ds come Maurizio Chiocchetti (padre di uno dei giovani talenti della società). Ogni due settimane i ragazzi del Trifoglio celebrano sul campo messa in latino, rito tradizionalista. E ogni mattina, a dieci metri da dove il sacerdote celebra, vicino alla recinzione che delimita il campo, all’alba si fermano i camion che caricano i manovali rumeni per portarli al lavoro (caporali o micro imprenditori? Chissà).
La baraccopoli degli stranieri è cresciuta sotto il cavalcavia: ci sono capanne in legno col tetto rivestivo di canne per essere invisibili dall’altro, c’è persino una mini palestra artigianale tirata su con quattro pali, due teli, i pesi rubati alla palestra della società, e dei panchetti da flessione costruiti con materoali di recupero. La corrente la rubano agganciandosi alla centralina dell’Enel. La convivenza non stata nè facile nè buonista. Alfredo Iorio, leader dei trifoglisti la spiega così: «Con i romeni ci siamo picchiati due o tre ovolte, poi abbiamo fatto patti chiari: loro non rubano, e dopo le 21.00 possono fare la doccia calda negli spogliatoi più vicini al loro campo. Gieli lasciamo aperti». Sul centro vigila uno dei trifoglisti, Marco Scortichini: ha messo il parquet in una delle sale (e ci dorme).
Sull’altro lato del complesso c’è la baracca di «Maria la pecoraia», un’ex prostituta che dopo aver battuto per anni ha chiuso la carriera, comprato cinque pecore, e le ha messe a pascolare sui prati di Tor di Quinto. Quest’anno un bando del Comune ha assegnato la struttura a Emanuele Tornabuoni, imprenditore vicino al Comune: voleva farci un club. Ma Tornabuoni è «troppo vicino» al Comune, per gli avvocati della «Real Fettuccine», che hanno fatto ricorso al Tar (e lo hanno vinto).

E così tutto torna in ballo: fascisti, calciatori, tradizionalisti, genitori, extracomunitari e prostuitute vivono ancora gomito a gomito nella favela ai piedi del quartiere dei ricchi. Senza altre leggi che le proprie.

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