La valanga Penati travolge il partito Cosa rischia il Pd da Milano a Roma

MilanoÈ il tempo dello stupore, adesso. Stupore e «tribunali» politici. Perché se uno - Pier Luigi Bersani - non si capacita, all’altro - Filippo Penati - toccherà spiegare la palude di interessi e affari coltivati negli anni alla commissione di garanzia convocata dai democratici. «È doloroso, ma va protetto il partito», si sfoga il segretario. Un po’ tardi, forse. Perché l’inchiesta di Monza ha scoperchiato un vaso putrescente. Che non si ferma ai confini di Sesto San Giovanni. È il Pd a essere chiamato in causa. Dal punto di vista politico, ovviamente, ma anche da quello giudiziario.
Dalle aree Falck alla Serravalle ai trasporti pubblici, è possibile che l’ex golden boy della sinistra abbia fatto tutto da solo, e tenuto tutto per sé? Ballano milioni di euro (circa nove, in 17 anni) accumulati con presunte tangenti, rapporti opachi con il mondo dell’imprenditoria e delle cooperative, appoggi e protezioni politiche che stanno inquinando l’aria anche a Palazzo Marino, dove il neosindaco Giuliano Pisapia deve rintuzzare gli attacchi degli alleati dell’Idv, critici nei confronti dell’assessore alla Mobilità Pierfrancesco Maran, uomo di Penati nell’ultima campagna per le amministrative. Un ruolo delicato, quello di Maran. «La vittoria alle recenti elezioni comunali - scrivono infatti i pm - amplia il rischio di reiterazione del reato». Perché Penati avrebbe chiesto tangenti all’imprenditore Piero Di Caterina per aggiustare il contenzioso fra la sua Caronte srl - società di trasporti pubblici - e l’Atm di Milano. E un «gancio» all’assessorato chiave, quale potrebbe essere proprio Maran, non è passato inosservato agli inquirenti. Pisapia, però, garantisce: «Ho formato la mia giunta in totale autonomia, non ho mai avuto incontri, colloqui, suggerimenti, e tanto meno pressioni dirette o indirette, da parte di Filippo Penati, come da nessun altro».
Ma il capoluogo lombardo è solo una delle spine che tengono in apprensione il Pd. Perché anche a Genova hanno di che preoccuparsi. Nelle scorse settimane, infatti, il Giornale ha pubblicato le carte della vendita (svalutata, secondo molti analisti) da parte dell’allora presidente della Provincia e attuale sindaco Marta Vincenzi delle quote pubbliche nella Milano-Serravalle al costruttore Marcellino Gavio, e dei molti protagonisti interessati che in quella vicenda ebbero un ruolo, e che ruotavano attorno alla galassia Ds. Tra i tanti, c’erano anche Bruno Marchese (marito della Vincenzi, grazie a lei in affari con Gavio), e Bruno Binasco, l’imprenditore arrestato nel ’93 per aver finanziato il Pci attraverso una mazzetta da 150 milioni di lire versata al «compagno G» Primo Greganti, e ora accusato di aver girato 2 milioni di euro a Penati con una caparra finta immobiliare. A distanza di sei anni, Gavio cederà le sue quote di Serravalle a Palazzo Isimbardi a un valore più che triplicato, con una plusvalenza da 179 milioni di euro. Dominus dell’operazione, proprio Penati, che secondo il suo accusatore Di Caterina avrebbe ricevuto il «premio» per quella compravendita su conti esteri a Montecarlo, Dubai e Sudafrica. Il caso Serravalle è stato riaperto dai magistrati di Monza, che stanno cercando un’eventuale tangente tra le pieghe di quell’operazione. E il sospetto - vista la mole di denaro in ballo - è che, nel caso la mazzetta ci sia stata, una parte abbia preso la strada diretta a Botteghe Oscure. A imbarazzare non poco i vertici del Pd c’è poi la telefonata fatta da Penati a Gavio il 4 luglio del 2004, e svelata dall’inchiesta della procura di Milano sul tentativo di scalata a Bnl da parte di Unipol. «Pronto, sono Filippo Penati. Mi ha dato il suo numero l’onorevole Bersani». Risponde Gavio. «Sì, volevo fare due chiacchiere con lei, quando è possibile». «Guardi - risponde Penati - non so, beviamoci un caffè». Già all’epoca, dunque, era chiaro che il cellulare non avrebbe garantito la privacy necessaria per discutere di iniziative tanto complesse quali il travaso di denaro da Palazzo Isimbardi, al Gruppo Gavio fino alla cordata che aveva nel mirino la Banca nazionale del Lavoro. Insomma, Penati «spende» il nome di Bersani, e a sua volta Gavio avrebbe spiegato - in una lettera all’ex assessore milanese Giorgio Goggi - di essersi «impegnato con Fassino e D’Alema» per la vendita delle quote in Serravalle alla Provincia, tagliando fuori Palazzo Marino. Tutti smentiscono seccamente, ma sta di fatto che queste circostanze non sono sfuggite agli investigatori, che potrebbero decidere di seguire la pista della «regia romana».
A sostenere questa ipotesi investigativa, ci sono anche i versamenti che sarebbero stati fatti a politici nazionali del centrosinistra in occasioni delle elezioni del 2001 (di cui è stata trovata traccia nella contabilità parallela di Di Caterina), e il ruolo delle cooperative emiliane, imposte da Penati nei lavori multimilionari per la riqualificazione delle aree industriali di Sesto e che - per usare le parole dell’imprenditore Giuseppe Pasini - erano «il braccio armato del partito». Perché dare i soldi alle coop? Per finanziare indirettamente Botteghe Oscure, è il sospetto degli inquirenti. Così, ora, il Pd si trova stretto in una morsa.

Da un lato, «processare» l’ex cavallo vincente Penati «per garantire l’onorabilità del partito». Dall’altra - visto che in un’ottica squisitamente politica, «l’onorabilità» rischia di andare a farsi benedire giorno dopo giorno e verbale dopo verbale - prepararsi all’eventualità di un torrido autunno giudiziario.

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