A vederlo camminare diritto e a grandi, sicure falcate per le vie di Roma, a sentirlo parlare al telefono con la sua voce teatrale e a tratti enfatica, a ridere con lui a crepapelle dopo uno dei suoi straordinari affondi pieni di humour, di paradosso e di intelligenza, uno direbbe Valentino Zeichen poco più che un ragazzo. Invece il tempo, portatore di rughe e malinconie, è passato anche per lui. E lui, il poeta mondano, satirico, il Marziale della Roma di oggi, barocco e come tutti i barocchi attraversato da una malinconia metafisica, continua il corpo a corpo con il tempo e con la propria stagione declinante in questo libro nuovo, elegantissimo, Aforismi dautunno (Fazi, pagg. 167, euro 15). È una raccolta di aforismi che prendono la forma di epigrammi, o di epigrammi che hanno la sostanza di pensiero degli aforismi. Sta al lettore scegliere.
Lo stile è quello inconfondibile di Zeichen, uno dei pochissimi poeti italiani riconoscibili ad apertura di pagina. E quello che ne viene fuori è un suo ritratto ben articolato, quasi un catalogo dei temi che informano tutto il suo lavoro di autore. Il tempo, innanzi tutto. Che è come un gatto selvatico che attraversa un giardino senza mai rivelare dove si nasconda davvero. Il tempo che porta a transitare negli anni dellautore secoli e millenni. Che gli fa vedere vecchia allo specchio la pelle del viso, anche se assorbe la crema di bellezza «come il deserto lacqua». Che fa cadere i capelli, mentre, come per una magra consolazione, anche i pettini perdono i denti. La vecchiaia imminente suggerisce un solo rimedio: farsi «saggi/dementi», vivere in sé due nature come i centauri o gli ippogrifi. Altri temi decisivi la bellezza e lamore. Un testo ci suggerisce che la bellezza «è come la fiaccola della staffetta», nessuno la possiede per sempre, passa da una donna e da una mano allaltra. E gli amori, quelli più durevoli, quelli perduti, assomigliano per Zeichen agli ombrelli dimenticati, chissà dove. Non farebbe comodo ritrovarli, un giorno di pioggia? In questo aforisma fulminante: «Ventaglio di donna/ chador dOccidente», il poeta aggiorna leleganza con cui un suo predecessore così diverso da lui, Giuseppe Parini, vergò sulle «ventole» delle dame settecentesche versi giocosi e maliziosissimi.
Altro tema ancora è il rapporto tra il dandysmo e larte. Zeichen ama le superfici. Il massimo di profondità che conosce, gli dice una delle sue donne che merita di essere ricordata e nominata, è quella delle rughe. Ha sempre amato la stravaganza in arte, e lha sempre praticata anche se sa quanta «risentita acredine» suscita e, più ancora che la poesia e le poetiche, ha amato e cercato la vita da artista. Zeichen, in quello, è un uomo riuscito, perché nessuno vive da artista più di lui, bohémien e sovrano, poverissimo e milionario della fantasia, mondano e irregolare, politicamente scorrettissimo e intellettuale raffinato. Il dandy che è in lui gli suggerisce di dichiarare: «Evito di fare drammi/ se mai li scrivo». E di confessare di preferire ai gradi militari quelli alcolici. E quando irrompe la metafisica, è ragionata e limpida come da copione: «La mira dellartista/ deve essere superiore/ a quella dellarciere/ poiché punta allinfinito». Ma Valentino Zeichen non rinuncia ad altri temi. La teologia, con quella osservazione secondo cui «Gli Dèi sono atei, sono e basta», perché soltanto loro non hanno bisogno di credere. La geopolitica è la sua passione dominante. Questo poeta, e ne sono testimone sovente, discute lucido e a volte delira quasi fosse uno stratega e un uomo di Stato. Dopo la caduta dellUrss da dove viene il pericolo nucleare per lOccidente? DallIran, si chiede, munito per ora più di minareti di pietra che di temibili missili a lunga gittata?
Insomma, siamo di fronte a un libro che offre tantissimi spunti di divertimento intellettuale, oltre che di grazia stilistica. Alle volte si cala risolutamente nel genere: allora abbiamo proprio aforismi come sarebbero piaciuti a Flaiano. Folgoranti e imprevedibili. Come quando leggiamo: «Si nasce barbari/ e si finisce romani». O come quando la legge Bacchelli viene definita «il Nobel alla miseria». Per me è stata una festa leggere Valentino.
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