Valle, l’anti archistar che amava fare «l’indiano»

Friulano, nato a Udine nel 1923 e sempre a Udine scomparso nel 2003, Gino Valle è stato una delle figure più originali e creative dell'architettura italiana e internazionale del dopoguerra. Non sorprende dunque che, ad appena sette anni dalla morte, la casa editrice Electa gli dedichi una monumentale monografia (Gino Valle, 395 pagine, 75 euro, a cura di Pierre-Alain Croset e Luka Skansi), né che la Triennale di Milano la presenti in grande stile giovedì 27 gennaio, con relatori del calibro del critico d'arte Germano Celant, l'architetto e docente universitario Enrico Gregotti, il giornalista culturale Enrico Regazzoni e l'erede dell'attività e dello studio dello stesso Valle, vale a dire il figlio Pietro. Grande talento artistico, grande curiosità intellettuale, grande passione per la sperimentazione di nuove tecniche costruttive, il magistero di Gino Valle si impose a partite dagli anni Cinquanta del Novecento all'insegna di un'opera architettonica aperta e multiforme. Case popolari e banche, stabilimenti industriali e uffici, municipi e palazzi di giustizia: dal Veneto e dal Friuli passando per i contesti metropolitani di New York, Parigi e Berlino, rimangono ancora oggi esempi costruiti di grande attualità. Una parte della sua opera, del resto, fu dedicata al programma tipicamente moderno degli spazi per il lavoro, la fabbrica e l'ufficio: dalle industrie Zanussi, Fantoni, Olivetti, all'Ibm, la Deutsche Bank, la Banca Commerciale italiana. Lungo tutto l'arco della sua esistenza professionale, Valle si configurò come un talento eccezionale e come una figura molto singolare nel panorama dell'architettura europea. Il suo rifiuto di assumere posizioni ideologiche e programmatiche nei riguardi della propria azione progettuale, portò gran parte della critica a giudicare la sua opera come «inclassificabile» e «eterodossa». Valle stesso ne era del resto consapevole, visto che, con piglio polemico, dichiarava di essere molto irritato da quei «critici che vorrebbero classificare il lavoro degli architetti, credendo di poterlo fare sparando a destra e a sinistra, come se fossero a caccia. Per questi ciechi involontari ma cronici, io sono e voglio restare come un indiano con le piume sulla testa, osservabile da lontano, ma non catturabile». Figura atipica della cultura progettuale italiana, Valle fu dunque, come osservano giustamente i due curatori, «un progettista colto e raffinato, ma anche profondamente anti-accademico e antidogmatico. Nella sua concezione del mestiere come “grande artigianato“ si sentiva più vicino ad Alvar Aalto e alla cultura del pragmatismo anglosassone che alla figura dell'homme de lettres Le Corbusier. Amava la concretezza, la precisione e la fisicità del suo lavoro».

Questo ne fece un intellettuale solitario, che rifiutava «i riti mondani» della sua professione, gli atteggiamenti divistici e il linguaggio fumoso: l'esatto contrario di quella figura dell'archistar divenuta purtroppo da un ventennio a questa parte così ingombrante e irritante. Questo libro aiuta a riconciliarci con una professione che nella sua ragion d'essere - erigere un qualcosa di concreto che faccia star meglio l'essere umano - è alla base del vero umanismo.

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