Viaggio nel borgo degli artisti del cotto

Tratta la creta come se fosse pasta della pizza. La schiaccia con il palmo della mano, da esperto. Il risultato è una pallottola «che dentro ha già la sua forma». Poi si siede al tornio, un piede sul pedale, la pallottola sul piatto e le mani che plasmano: non usa stampi e in qualche secondo, sollevando le dita dal ripiano girevole, Giuseppe crea un panciuto salvadanaio. Se gliene ordini dieci li fa tutti uguali, precisi precisi.
Siamo a Milano, in via Walter Tobagi 8 ma siamo anche in un piccolo borgo di 8mila metri quadrati: la fornace Curti. Qui nasce il cotto. Si mescolano le terre, si impastano, si lavorano. Si dà forma alle cose: ecco vasi, mattonelle, tubi, pentole. Ma anche fregi, cornici, statue, tegole e archi. Si lavora con le mani, niente è di «serie» e l’unico intervento tecnico è il forno. Perfino l’oggetto più piccolo va cotto per 50 ore e guai a interrompere il raffreddamento prima del tempo, potrebbe scoppiare tutto. Ma la strada che ci conduce al miracolo è ancora lunga, ogni tappa ci stupisce a suo modo. Dalla polvere d’argilla all’opera d’arte niente avviene per caso. Nella sala dell’essiccazione gli oggetti «sostano» una decina di giorni prima della cottura, ma non vengono abbandonati a loro stessi. Perché umidità e clima interferiscono e ci vuole qualcuno che regoli il termostato, spalanchi la finestra, appoggi i pesi nei punti giusti. Servono venti giorni per plasmare un singolo oggetto. L’attesa fa parte del gioco. Il mestiere è rimasto identico nei secoli. La fornace Curti è una delle più antiche d’Italia. La prima commissione degli Sforza risale al 1420, Giosuè Curti ebbe l’incarico di sagomare formelle e mattoni nientemeno che per la Ca’ Granda del Filarete. E poi via con i fregi degli altri monumenti, dalla Certosa di Pavia all’abbazia di Morimondo, da Santa Maria delle Grazie a Chiaravalle, da San Marco al Duomo di Monza: la storia lombarda è davvero «piastrellata» dal cotto dei Curti.
Nel 1400 la fornace era sorta alle colonne di San Lorenzo. «Non fu un caso - ci spiega la proprietaria Daria Curti che con il marito Alberto ha ristrutturato una trentina di anni fa il complesso come lo vediamo oggi - perché l’argilla del sottosuolo era arricchita da un componente naturale, l’antigeliva, che permette ai manufatti di resistere al freddo degli inverni lombardi e di cui è invece sprovvisto il cotto toscano». Lo stesso impasto prezioso si trovava nel sottosuolo di porta Ticinese dove la fabbrica si trasferì nel 1700 e in via Tobagi angolo Cottolengo, la sede dal 1900. «Oggi che le cave non esistono più ricreiamo la stessa argilla di allora. Utilizziamo terra dell’Oltrepò pavese o del Piemonte mescolandola con ferro e minerali, inseriamo l’antigeliva e il risultato è identico» aggiunge Daria Curti. È dunque una speciale alchimia la legge che permette il miracolo. Il risultato è esposto un po’ dappertutto nel borgo, dal deposito, ai portici, dai laboratori alle tettoie, al magico cortile che si apre all’ingresso. Terracotta rosso intenso ma anche ceramica, maiolica, gres, raku, tutti «figli della stessa madre argilla». Dal pianoterra è uscito anche il gigantesco busto di donna dell’artista Marco Cornini presentato all’ultima Biennale di Venezia.
Questo posto sprigiona un fascino particolare anche fra i non addetti ai lavori. «Chi viene qui una volta, ritorna sempre» dice uno degli artigiani.

E l’idea la suggeriscono i colombi bianchi che dimorano nel bel giardino curato dalla signora Curti: fra limoni, palme, olivi, bonsai e roseti spiccano il laghetto delle rane e la piccionaia aperta. I colombi volano e rientrano. Nessuno di loro abbandona mai le grondaie della fornace.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica