Al Vittoriale

Giorgio Manganelli ci scherzava su: «Rileggerò d’Annunzio? Forse che sì forse che no». Per Hemingway, «in nessun Paese dotato di senso pratico si porterebbe un cognome del genere». Più correttamente, alcuni critici hanno avvicinato d’Annunzio al grande romanziere spagnolo «don Ramón» del Valle-Inclán, cui mancava il braccio sinistro (rissa in un bar di Madrid), mentre al Nostro difettava l’occhio destro (atterraggio d’emergenza e urto contro mitragliatrice di bordo, nel 1916). Entrambi avevano sensualità da vendere. Forse di più d’Annunzio, stando ai diari (pochi) e alle lettere (molte) delle donne che sedusse (moltissime).
Un ulteriore capitolo postumo di questa sensualità a mezza strada tra Nietzsche, Pascoli e Maupassant, e screziata di colori militari come poche altre del Novecento, viene oggi inaugurato al Vittoriale degli Italiani di Gardone Riviera, Brescia: si tratta di un segmento museale che ingloberà il preesistente «Museo della Guerra» e che andrà ad aggiungersi a quello di «D’Annunzio Segreto», aperto otto mesi fa. E questa volta si tratta di «D’Annunzio Eroe». «“Museo della Guerra” - ha detto il presidente del Vittoriale Giordano Bruno Guerri, commentando l’operazione - mi è sempre parso un nome inadeguato per una raccolta di oggetti come la bacchetta brandita da Arturo Toscanini nel concerto a Fiume, o la scultura di Adolfo Wildt, con il suo sorriso enigmatico e tagliato a metà».
Tra la settantina di «cimeli strepitosi, apoteosi del d’Annunzio esteta», come li ha definiti Bruno Guerri, ritroviamo l’autografo di La notte di Caprera, una canzone per Garibaldi in cui vediamo l’Eroe dei due mondi raggiungere, dal Ligure «pel suo Tirreno», la «tomba che gli lavorerà l’arte del Mare». D’Annunzio, come scrisse sull’autografo, terminò di correggere la poesia il 22 gennaio 1901 alle sei di sera: è commovente, non solo per i filologi, vedere gli interventi che fece sul manoscritto.
Poi ci sono le armi del Vate, appartenenti alla collezione dell’ambasciatore Antonio Benedetto Spada, mai mostrata al pubblico: una daga in argento e acciaio, dono degli Arditi, incisa con nodi di Savoia e stelle, e il motto «FERT» (interpretazione ufficiale, riferita a un episodio medievale: Fortitudo Eius Rhodum Tenuit, «La sua forza preservò Rodi»); un’altra daga in oro e acciaio, dono della città di Zara, con i due motti «Io ho quel che ho donato» e «Memento Audere Semper», dannunziani al midollo. Entrambe sono custodite in cofanetti di argento e lapislazzuli. Vi sono ancora un pugnale d’onore in acciaio brunito, dono della Regia Marina, un altro in acciaio, oro e corno, dono dei legionari fiumani, coi motti «Quis contra nos?» e «Fiume o Morte». A queste preziose lame se ne si aggiungono diverse altre: una dono «delle Donne di Fiume». Un’altra ancora è una Yagatan dei Balcani «All’Intrepido Comandante dell’Inosabile Impresa A Dalmatica Imperitura Memoria». Si capisce come Hemingway potesse covare una punta di invidia dinanzi a tutto ciò.

C’è anche lo stiletto acciaio, oro, argento dorato e granati che d’Annunzio regalò a «Giusini», cioè alla contessa Giuseppina Mancini Giorgi, la «rosa bianca» il cui colore della pelle faceva pensare, secondo il Poeta, «al marmo dei templi di Delo».

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