Per Wikileaks la guerra è un inferno? Sai che scoop

Forse le sole notizie contenute nei 92mila documenti di Julian Assange, il capo di Wikileaks, è che i talebani hanno missili antiaerei attratti dal calore, e anche i particolari di come l’Iran sostiene i talebani e Al Qaida, anche se in generale si sapeva anche questo. Per il resto, quello che si impara è che la guerra è un inferno, grazie tante, e che in Afghanistan tutto è molto difficile. Il buon giornalismo rivela novità, rompe stereotipi, aiuta la verità. L’operazione Wikileaks contro la guerra in Afghanistan non fa niente del genere, al contrario con questi 92mila documenti classificati (forse si classifica troppa roba) si nutre l’insistenza di chi vuole che gli Stati Uniti e i suoi alleati tornino a casa piuttosto che combattere la guerra mondiale contro il terrorismo.
Il capo di Wikileaks l’ha detto chiaro e tondo: è un modo di dire che la guerra in Afghanistan è uno schifo. Insomma è un’operazione prima ideologica che giornalistica. Assange vede nelle sue scoperte «le prove di crimini di guerra», il Time scrive che da qui si vede quanto sia «futile la guerra in Afghanistan»: se la macchina terrorista sia qaedista sia talebana dovesse essere aiutata dalla campagna di Wikileaks, se i generali David Petraeus e James Mattis dovessero sentirsi isolati a causa della campagna di Assange, sarebbe un guaio per tutto il mondo. Ma le rivelazioni non funzioneranno perché, punto primo, non sono tali, e anche, perché, secondo punto, mettono in moto un meccanismo che in pacifisti non vedono.
Infatti si sa da tempo che i servizi del Pakistan sono collusi con il terrore, che si permette all’Isi di incontrarsi con i talebani per organizzare il terrorismo; si sa anche che le Forze Speciali e la Cia conducono rally antitalebani; si immagina bene che questi attacchi si compiano contro una lista di terroristi pericolosi, e non credo che gli americani ne restino scandalizzati. Sanno cos’è il terrorismo su vasta scala, hanno conosciuto l’11 settembre, hanno visto staccare le teste di Daniel Pearl e di altri loro concittadini rapiti. Certamente odiano, come tutta la cultura occidentale del nostro tempo, che i civili siano feriti o uccisi nei villaggi dove invece si dovrebbero uccidere soltanto terroristi e capi talebani. Questo è il vero punto per la nostra civiltà, che giustamente condanna la morte dei civili.
Assange sa che il cuore è la carta vincente contro la guerra, come lo fu Song Mai per il Vietnam. Ma in tempo di guerra asimmetrica, ricordiamo con La Rochefoucauld che «l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù». Se si chiederà a un comandante se ha istruito i suoi soldati a evitare di colpire i civili, la risposta sarà «sì», e sarà veritiera. Ma la più importante domanda della guerra asimmetrica è qui: dove comincia, in un’operazione, il momento in cui entra in ballo l’imperativo primario, quello di salvare la vita? Salvare la vita vuol dire anche sparare quando non sai se la persona che ti si para di fronte è un militante o un contadino, fermare un grande ricercato che non ritroverai mai più, e colpire colui che domani farà saltare i tuoi soldati con un ordigno improvvisato, o attaccherà una struttura civile uccidendo donne e bambini. La questione diventa dunque di nuovo se questa guerra deve essere combattuta o abbandonata, consapevoli del fatto che non c’è esercito occidentale che non cerchi di evitare le perdite civili.

Se si insiste a chiedere perché non ci si riesce, la risposta sarà alla fine non più: «farò del mio meglio» ma: «perché non è possibile». Sarà scritto nero su bianco nei libri di strategia, diverrà teoria della guerra. È questo che cercano Wikileaks e i suoi amici?

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