Senza speranza ci siamo ridotti a sopravvivere. E non viviamo più

Byung-Chul Han racconta una società di solitudine e chiusa al futuro: la nostra...

Senza speranza ci siamo ridotti a sopravvivere. E non viviamo più

Tutti sperimentiamo quello che racconta il filosofo Byung-Chul Han nel suo nuovo libro: viviamo immersi nell'angoscia. «Ci troviamo permanentemente faccia a faccia con scenari apocalittici: una pandemia, una guerra mondiale, una catastrofe climatica». Non è che siano opzioni di cui non preoccuparsi: «A essere problematica non è l'angoscia per la pandemia, ma la pandemia dell'angoscia». Nel suo saggio Contro la società dell'angoscia (Einaudi), il pensatore sudcoreano traccia un'immagine desolante quanto realistica: «Ci trasciniamo passando da una difficoltà a un'altra, da una catastrofe a un'altra, da un problema all'altro. Al cospetto del volume sempre crescente di problemi da risolvere e di crisi da gestire, la vita si atrofizza. Vivere si trasforma in sopravvivere. L'affannata società della sopravvivenza è simile a un ammalato che con tutti i mezzi cerca di schivare una morte che si fa sempre più vicina». Il futuro è «tetro», perché lo sguardo gettato in avanti scorge solo la fine più o meno imminente. Fra le massime ambizioni dell'umanità figurano, al momento, la longevità estrema del corpo, il trasferimento della mente su un microchip, la possibilità di non fare più un calcolo, di non scrivere più una lettera, di non dover più guidare o di saltare la coda. Qualcuno parla di sogni o di un mondo da migliorare? Sembrerebbe un folle: il mondo pare sull'orlo dell'abisso e, prima di poter aspirare a migliorare, dovrebbe prima riuscire a salvarsi.

Eppure, proprio in questo abisso in cui siamo finiti, proprio nel fondo del burrone, spunta il gradino di una scala da cui risalire. Questo gradino si chiama speranza ed è proprio a quest'ultima, in quanto antidoto all'angoscia, che è dedicato il saggio di Byung-Chul Han. Il quale, come ogni filosofo, non si limita a osservare, ma cerca anche di gettare le tracce di un possibile sentiero da seguire.

La speranza è il contraltare dell'angoscia. Quest'ultima è «strettezza» (così ci dice l'etimologia germanica della parola) che «preclude, ostruisce il futuro poiché rende inaccessibile il possibile, il nuovo»; per chi vive nell'angoscia, il mondo «appare come una prigione». All'opposto, la speranza «apre l'orizzonte della sensatezza che nuovamente anima e mette le ali alla vita» e «ci dona futuro». La speranza è ciò che sposta la priorità dal sopravvivere al vivere, e lo fa proprio nel momento in cui la disperazione è assoluta: «La profondità della disperazione e l'intensità della speranza vanno di pari passo. Non a caso Elpís (la speranza) viene presentato come figlio di Nyx, la dea della notte» (nella mitologia greca). Per questo motivo, la speranza non ha nulla a che spartire con l'ottimismo e tanto meno con il proliferare dei like, che mancano di negatività: «Il like è la formula fondamentale del consumo. Le negatività e le intensità si sottraggono al consumo. Anche la speranza è una forma di intensità. Essa esibisce un'interiore preghiera dell'anima, una passione che si risveglia al cospetto della negatività della disperazione».

La speranza, dice Han, è legata alla libertà, alla creatività, al sogno e all'amore. Tutto questo la rende un elemento di rottura radicale rispetto a una quotidianità in cui «noi ci sottomettiamo liberamente alla costrizione di essere creativi, prestanti e performanti, di essere autentici». Quella che chiamiamo creatività non è che una produzione di «variazioni dell'Uguale»: la vera creatività, infatti, è l'apertura al «totalmente Altro», una apertura impossibile senza speranza, una apertura che l'angoscia ci preclude perché ci fa restare rinchiusi nelle nostre solitudini perfettamente connesse, eppure mai legate, perché «l'essere in relazione viene sostituito dall'avere dei contatti». Allo stesso modo, il pensiero - che è carne, emozione, amore - viene sostituito dal calcolo: «Il pensare spogliato di ogni speranza è, infine, un'attività di calcolo. Da esso non scaturisce niente di nuovo, non genera nessun futuro». Ecco perché un mondo che si affida all'Intelligenza artificiale è già morto: «La previsione rende superflua la speranza, chi spera fa i conti con l'imprevedibile, con possibilità completamente improbabili». Ecco perché un mondo che cerca solo contatti e informazioni non parla più il linguaggio della poesia, che «è una lingua della speranza».

Ci sono altre due caratteristiche molto importanti della speranza, in contrapposizione all'angoscia. La prima: sperare non è passività. Sperare spinge all'azione, di più: «precede l'azione». Scriveva Nietzsche: «Giove volle cioè che l'uomo, per quanto tormentato dagli altri mali, tuttavia non gettasse via la vita, e continuasse invece a farsi tormentare sempre di nuovo. Perciò egli dà agli uomini la speranza». In quel «tuttavia» c'è la forza della speranza, quella che ci porta salvezza, che ci parla di un nuovo inizio: «Un bambino è nato per noi». E qui veniamo alla seconda caratteristica: la speranza è «contigua all'aver fede». Václav Havel, un uomo che aveva conosciuto bene la disperazione, descriveva la speranza come «una dimensione della nostra anima» e aggiungeva: «Sento quindi che le sue radici più profonde sono conficcate nel trascendente (...). Non si tratta dunque della convinzione che una certa cosa andrà a buon fine, ma della certezza che quella cosa ha un senso - indipendentemente da come andrà a finire». E questa speranza «che riesce a dispetto di tutto a tenerci a galla» non la prendiamo da noi, ma «per così dire da un altro luogo».

Quale luogo? Non a caso, la speranza è considerata una delle tre virtù teologali dalla dottrina cristiana. San Paolo scriveva: «Dalla paura della morte erano tenuti schiavi per tutta la vita». Noi possiamo scegliere se essere schiavi e sopravvivere per schivare la morte fino a che ci afferra, oppure vivere (certo, anche la libertà comporta dei rischi). Possiamo provare a rendere ogni istante «la piccola porta da cui poteva entrare il Messia» di cui parlava Walter Benjamin.

Per lui, l'Angelus Novus di Paul Klee aveva lo sguardo rivolto sulle macerie del passato e le ali intrappolate dal vento del progresso. Ma il Novus non è il progresso: è il futuro, il salto verso il totalmente Altro, l'apertura della porta da cui il Messia aspetta solo di entrare per porgerci la mano.

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