«In 2mila rischiamo di chiudere. Ma non molliamo»

«Ho 56 anni, la mia bambina ne ha 13 e forse domani dovrò cercarmi un posto di lavoro, se mai avrò la fortuna di trovarne uno». Alberto Vanzini, titolare della F.lli Vanzini di Jerago con Orago, storica azienda con la tessera d’iscrizione numero 84 - era il lontano ’47 - all’Associazione artigiani della provincia di Varese, ha la voce forte di chi, nonostante tutto, mantiene ben saldo l’ottimismo della volontà. E dire che dalle cifre che snocciola e dai fatti che mette in fila l’uno dopo l’altro, esce invece un quadro da far tremare i polsi.
Perché proprio quella che è sempre stata una delle zone più ricche e produttive d’Italia, la provincia di Varese, che da sola fa il Pil di una regione come il Friuli Venezia Giulia, e dove in un’unica e piccola area comunale, quella appunto di Jerago, 5.069 abitanti, ci sono 57 aziende per ogni chilometro quadrato, dalla fine dell’anno scorso è entrata in una crisi epocale. Che fa paura proprio perché qui «crisi» è parola e cosa inedita. I calcoli risalenti a metà giugno davano a rischio chiusura 2.000 micro imprese, perlopiù sub-fornitrici, per complessivi 5.000 dipendenti.
«Un dato anche ottimistico, se rivisto con gli occhi di oggi - commenta Daniele Parolo, presidente della locale Cna (Confederazione nazionale dell’artigianato) e titolare di un’azienda meccanica con 5 addetti -. Da inizio anno, stante un inedito saldo anagrafico negativo delle imprese associate alla Camera di commercio, le iscrizioni sono calate del 30%, mentre nel 2008 si viaggiava ancora alla media di 200 nuove imprese al mese. Come Cna lo verifichiamo dai dati dei cedolini paga che elaboriamo per conto delle aziende associate: i nostri cedolini sono passati da 1.800 a 1.600».
«Noi avevamo quattro dipendenti e ora ne sono rimasti due, uno lavoricchia e l’altro, autista del furgone, è in cassa integrazione perché non c’è più nulla da consegnare - racconta Piero Cassani, 50 anni, che con la moglie Lorella lotta per mandare caparbiamente avanti la C.M. Cassani Meccanica -. Dopo 25 anni sempre a testa bassa, con turni anche di due giorni consecutivi, noi due ci siamo tolti anche lo stipendio. Nel 2007 avevamo investito in macchinari nuovi per un milione di euro e ora dobbiamo pagare le rate del leasing. Ma con che cosa, se non abbiamo più ordini? - aggiunge con rabbia -. E ora? Ci porteranno via la casa? No, non è giusto».
Non mollano, questi piccoli capitani coraggiosi riunitisi a giugno nel gruppo «Impresecheresistono Lombardia». Anche se tremano perché, essendo perlopiù sub fornitori di aziende di maggiori dimensioni - «siamo i loro primi ammortizzatori sociali», ironizza Vanzini - sanno benissimo che, come ricorda il presidente dell’Associazione artigiani di Varese, Giorgio Merletti, titolare di una falegnameria con 3 addetti ad Arsago, «per ogni azienda al di sopra dei 250 dipendenti che chiude, vanno in crisi 242 micro imprese loro fornitrici». È quello che Vanzini chiama «l’effetto domino, che peraltro è già iniziato. Io, per esempio, non ho più un’impresa di pulizie; se un tornio si guasta non lo faccio riparare, ma ne rimetto in funzione uno vecchio; e i lavori di elettricista cerchiamo nel possibile di farceli da noi». Un impoverimento di tutta la zona che preoccupa anche le amministrazioni locali, come conferma il sindaco di Jerago, Giorgio Cinelli, a capo di una giunta di centrodestra. «Perché le piccole e medie imprese, in una realtà piccola come la nostra, si identificano con la stessa struttura sociale del territorio».
Il motivo scatenante di questo desolante panorama - concordano più o meno tutti - è il combinato disposto della crisi globale che ha investito i mercati e dell’incapacità (o scarsa volontà) del sistema bancario di erogare credito e a condizioni sostenibili. «E siccome la fortuna ci vede male, ma la sfiga invece benissimo, proprio in un periodo così negativo ci siamo beccati anche la iattura del trattato Basilea 2, una scelta sciagurata che, va detto, è una spada di Damocle per le stesse banche, condizionandone i criteri di valutazione delle aziende», aggiunge Parolo (Cna). Così, o ci metti la tua casa, o, se li hai, dei titoli, oppure ti vedi chiedere interessi quasi al 9%.
«Non si tratta di essere protezionisti - sbotta Parolo rivolgendosi al giornalista “nuora” perché la “suocera” politica intenda - ma non si può più far finta di niente. Solo nella nostra zona, abbiamo perso negli ultimi mesi il 50% della produzione e registrato un calo del commercio, derivante dall’impoverimento delle famiglie, valutabile nel 5%. Intanto, i Paesi dove abbiamo incentivato le nostre aziende a delocalizzare - e il perché, qualcuno me lo deve ancora spiegare - stanno risalendo velocemente sia in termini di pil sia di produzione. Solo India e Cina insieme sono ormai una percentuale pesante del Pil mondiale».
«Quello che vorremmo, per poter ritornare a respirare - spiega Lorella Cassani - è che la politica ci aiutasse a parlare con le banche a più alto livello.

E che magari le banche tornino a lavorare sul territorio come facevano un tempo, dimenticando il Basilea 2, ma guardandoci di nuovo in faccia. Vedrebbero “imprenditori” come me e mio marito che l’ultima vacanza l’abbiamo fatta lo scorso anno. Isola d’Elba, una settimana, stanza in affitto».

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